La pur prevedibile seconda ondata del virus sta facendo naufragare l’organizzazione sanitaria di molti Paesi, tra i quali l’Italia. In otto mesi di emergenza sono stati emessi decreti “a pioggia” che, soprattutto recentemente, hanno scatenato una “tempesta” di proteste. Si ha l’impressione di una navigazione a vista, dove la rotta viene continuamente modificata, senza attendere gli esiti di quella tracciata in precedenza. E non tanto gli ordini impartiti dal comandante, ma le sue inconsuete “raccomandazioni” fanno temere il peggio. Quando un’imbarcazione è in pericolo, l’indecisione è il male peggiore.

Se può essere comprensibile, ma non giustificabile, che la popolazione abbia trovato nei piaceri estivi il riscatto dopo giorni di clausura, è certamente grave che uno Stato, già colto impreparato all’indomani della prima diffusione del virus, lo sia ancora oggi sotto l’aspetto sanitario, economico e nei rapporti tra il potere centrale e quello periferico delle Regioni. Sono giorni di Babele, le previsioni non sono affatto buone e – ci dicono – potranno migliorare solo con l’agognato vaccino di cui però si sa ben poco e sul quale vi è ulteriore confusione circa l’efficacia e i tempi di realizzazione e distribuzione. I media dedicano ampi spazi al conflitto in atto tra scienziati sulle previsioni di contagio e sulle soluzioni da adottare, alle condizioni degli ospedali, alle proteste delle categorie penalizzate dai provvedimenti governativi, al mondo della scuola per il quale non ci sono scelte condivise. Dimenticati, come sempre, i circa 60mila detenuti, il cui destino è affidato allo Stato, e le moltissime persone che lavorano negli istituti di pena.

Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha, da alcuni giorni, ripreso la pubblicazione periodica del bollettino d’informazione sull’emergenza sanitaria nelle carceri, in quanto «riaffiora e si espande la preoccupazione per la diffusione del Covid-19 nella vita di ogni giorno e nei luoghi dove si vive in realtà ristrette e la libertà di uscirne è preclusa». Il Garante segnala che le presenze in carcere, da maggio scorso, hanno avuto un importante incremento e che, invece, «occorre con fermezza chiarire che la necessità di spazi è ineludibile e che, quindi, non ha senso far rientrare in carcere persone che vi trascorrono soltanto la notte o mantenere la detenzione di persone condannate a pene brevi» .

La storia del giovane Gaetano, riportata pochi giorni fa sulle pagine di questo giornale, è emblematica e ci fa comprendere l’urgenza di un’effettiva riforma dell’esecuzione penale e di quanto sia stato grave affossare i lavori degli Stati generali e quelli successivi delle Commissioni ministeriali, ignorando le raccomandazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e la stessa delega del Parlamento al Governo. È davvero incomprensibile che un condannato, che sta scontando la pena agli arresti domiciliari, debba, al passaggio in giudicato della sentenza, entrare in carcere al fine di richiedere nuovamente lo stato di detenzione precedente che gli sarà certamente concesso.
Come è del tutto illogico non consentire al giudice che infligge la condanna di disporre, oltre la pena detentiva in carcere e/o quella pecuniaria, anche gli arresti domiciliari o altra misura alternativa. La micidiale e irragionevole burocrazia processuale prevede, invece, che il condannato debba prima entrare in carcere e, una volta ristretto, possa rivolgere istanza al Magistrato o al Tribunale di Sorveglianza per ottenere di scontare la pena con modalità differenti.

Si ha, di fatto, un periodo di detenzione che si potrebbe certamente evitare, a vantaggio del recupero di spazi vitali, non solo oggi per l’emergenza sanitaria in atto, ma per diminuire il sovraffollamento che al detenuto consente, solo raramente, di mettere in atto il percorso di risocializzazione previsto dalla Costituzione e dall’ordinamento penitenziario. Sono questi solo alcuni esempi delle numerose criticità che rendono necessario un percorso sulla strada maestra della riforma, che il virus ha reso ancora più urgente e non più rinviabile, in quanto l’eventuale sviluppo esponenziale del contagio all’interno degli istituti di pena – dove per ovvie ragioni il terreno si presenta fertile – si riverserà su strutture sanitarie esterne, essendo l’amministrazione penitenziaria impotente per ragioni strutturali e organizzative. Il carcere – e l’Italia tutta – ha urgente necessità di una visione generale delle innumerevoli problematiche che l’affliggono: un serio e concreto intervento di sistema e non di una pluralità di misure che altro non sono che mattoni di un’altra torre di Babele.