Il “nuovo Pd” declinato da uno dei suoi più autorevoli dirigenti: Andrea Orlando, tra i fondatori del Partito Democratico nel 2007, di cui è stato Vice segretario, parlamentare, già ministro dell’Ambiente, di Grazia e Giustizia e del Lavoro e delle politiche sociali.

Nel dibattito costituente del nuovo Pd una delle parole più usate è identità, provi lei a declinarla.
Nell’accezione del nostro dibattito identità è un termine che si riferisce a come siamo percepiti e a come ci percepiamo. L’identità del Partito Democratico, nel corso di questi anni, è stata spesso risolta con il tema della responsabilità, cioè di una forza che si fa carico della tenuta del sistema, con tutte le sue virtù, quelle di una democrazia liberale, ma anche con tutti i limiti. Questa identità ha finito per essere sovrapposta appunto alla difesa dell’establishment. Oggi, rivedere l’identità non è un percorso né semplice né indolore, significherebbe ridefinire gli obiettivi di trasformazione, assumere con più forza il carattere di forza del cambiamento, elementi che implicano però anche una riconsiderazione delle scelte compiute, perché questi tratti possano essere credibili, riconosciuti e riconoscibili. Se si chiede a un dirigente del Pd quali siano i principali tratti di trasformazione che vuole promuovere, molto dipenderà dalla sua estrazione, dalla sua cultura politica di provenienza. Segno questo che non si è mai, soprattutto sui temi economici e sociali, raggiunto un punto di equilibrio, una sintesi compiuta tra valorizzazione della dimensione di continuità e elementi di cambiamento. Questa lacuna è stata risolta spesso con la rimozione del problema, non è un caso che il PD si sia caratterizzato di più su temi su cui invece una sintesi era stata raggiunta, penso soprattutto appunto alla difesa della qualità della democrazia, alla promozione dei cosiddetti diritti civili, non perché siano contrapposti a quelli sociali, semplicemente si è costruito, non senza fatica e contraddizioni, un comune sentire. Questo ha consentito che fossero più al centro dell’iniziativa politica, un passo avanti che invece sui temi economici e sociali non si è riusciti a compiere. Insomma, una nuova identità presuppone un ripensamento della cultura politica e quindi anche la costruzione di parole in grado di essere il riferimento per il riscatto di settori della società. Un lavoro che non si realizza semplicemente nel chiuso della elaborazione di partito. Non basta scriverlo nei programmi, non bastano neanche i disegni di legge. Per riconquistare credibilità bisogna far percepire a chi ti osserva il fatto che sei disponibile a impegnarti fino in fondo, costi quel che costi, in una battaglia per raggiungere quegli obiettivi che tu ritieni siano caratterizzanti.

Lei ha proposto un nuovo nome per il Pd: Partito del Lavoro, cos’è il retaggio di un suo trascorso governativo?
Sono sempre stato convinto che una forza progressista nel nostro paese e in Europa non potesse che caratterizzarsi per il nesso con il lavoro. Naturalmente il lavoro che è cambiato, con le sue articolazioni, che è cambiato anche con una serie di frammentazioni, con l’impatto delle nuove tecnologie del digitale, ma che resta l’attività più trasformativa dell’uomo da un lato e dall’altro quella che reclama con più forza un’umanizzazione del modello di sviluppo. Anche tutti quelli che hanno negato l’esigenza di un cambio di nome o lo hanno derubricato a questione di forma, sono stati poi costretti però in queste prime battute del congresso a confrontarsi con questi temi. Segno che il problema esiste e che non aver costruito un rapporto strutturato con il lavoro ha coinciso con il non essere riusciti a costruire un rapporto con la società.

A proposito di governo, nell’ultimo decennio sembra essere diventato per il PD una ragione di vita politica. Non crede che anche per questo una parte del paese, dell’elettorato abbia finito per identificarvi con l’establishment?
Grandi forze popolari si sono caratterizzate nell’esperienza di governo senza rinunciare alla loro identità, se pensiamo ai governi di unità nazionale dell’immediato dopo guerra, ma anche al cosiddetto compromesso storico, ci rendiamo conto che in quelle esperienze ciascuna di quelle forze portava una dimensione valoriale, un impatto programmatico che erano evidenti e chiari di fronte all’opinione pubblica. Questo si è in qualche modo smarrito, anche nelle esperienze, prima del Governo Monti e poi del Governo Draghi, il Pd non si è posto come una forza che faceva un ragionamento onesto con i suoi elettori: questo è un governo di coalizione, noi abbiamo questi obiettivi, questi obiettivi non sono tutti perseguibili, ma ci concentriamo su almeno una parte di essi e faremo battaglia fino in fondo perché possano essere realizzati. Se fai invece diventare la stabilità, la tenuta del governo in quanto tale, l’obiettivo prioritario, è del tutto evidente che anche quando poni una questione lo fai con una riserva mentale e con la disponibilità a soprassedere, non appena si incrociano delle difficoltà. Così si rischia che le persone vedano la tua presenza al governo semplicemente come un modo di partecipare ad esso a prescindere dal merito delle scelte che si compiono. Temo che questo sia però anche la conseguenza di quella irrisolta identità o meglio quella doppia anima che ha caratterizzato il Pd, perché in fondo i principali contrasti che in una fase come questa si sono determinati anche dentro la coalizione, riguardavano tutti le questioni economiche e sociali. Il governo Draghi non era un governo nato per fare né le riforme istituzionali, né per affrontare temi eticamente sensibili, ma si dava il compito di portare il paese fuori dall’emergenza, obiettivo che si può raggiungere in modi diversi, facendo pagare il conto a settori diversi della società. Il Pd non ha sciolto esattamente il nodo su quali settori della società vuole rappresentare e con chi parlare e questo inevitabilmente si riflette anche su una difficoltà di esprimere, sui diversi passaggi, un giudizio che sia netto. C’è chi lamenta anche nel dibattito congressuale il fatto che gli esponenti del PD non sappiano esprimere un giudizio se non attraverso una serie di circonlocuzioni.

C’è un problema di comunicazione?
Non è un deficit comunicativo, è la conseguenza del fatto che ogni qualvolta si esprime un giudizio più netto si lascia fuori un pezzo della constituency del Pd e si aprono delle polemiche di carattere interno e quando mi sono trovato a porre alcuni obiettivi di tutela del lavoro, penso per esempio al superamento dei tirocini gratuiti, i primi a criticare quel tipo di misure non erano opinionisti dei giornali di destra, ma del campo cosiddetto progressista, perché non abbiamo sciolto il nodo del rapporto tra stato e mercato, tra individuo e comunità e questo non può che pesare anche nel modo in cui stai al governo.

In Italia si continua a discutere come se da ormai quasi un anno non ci fosse una guerra combattuta nel cuore dell’Europa, lei ritiene che una pace possibile possa realizzarsi attraverso il sostegno militare all’Ucraina?
E’ abbastanza incredibile come si sia rimosso il fatto che ci si trova in sostanza dentro qualcosa che assomiglia a una Terza Guerra mondiale, qualcosa che cambierà le nostre vite e rischia di cambiare anche la vita delle prossime generazioni. Tutti noi abbiamo sottovalutato la capacità di resistenza dell’Ucraina dal punto di vista militare, ma anche la capacità di resistenza della Russia dal punto di vista economico. Questa situazione di tenuta su entrambi i fronti prolungherà significativamente questo conflitto e comunque ne ha innescato uno di dimensioni più ampie che vede una contrapposizione tra una parte del mondo e una larga parte che o è ostile o è indifferente alle questioni che si giocano nel conflitto russo-ucraino. Ma si continua a parlare di riforme istituzionali, di politiche industriali come se tutto questo non ci fosse. L’unico ambito nel quale si sono riconsiderate le politiche è stato quello dell’energia, per frenare sotto la pressione delle lobby del fossile sul processo di transizione. Una guerra come questa non si vince soltanto con il dispiego di armi, una guerra come questa si vince anche con la politica che è drammaticamente scomparsa e su tutti il ruolo dell’Europa che non è riuscita a svolgere una funzione, anche perché direttamente interessata dal conflitto, ma anche perché profondamente divisa a svolgere una funzione a livello globale. Non mi riferisco tanto nei confronti della Russia, che evidentemente non è disponibile all’apertura di un dialogo per ragioni che sta drammaticamente dimostrando sul campo, ma all’insieme delle forze che potrebbero in qualche modo esercitare una pressione sulla Russia stessa e su questo l’iniziativa politico diplomatico dell’Europa è praticamente pari a zero.

E l’Italia?
Anche l’Italia in Europa ha svolto una funzione, a mio avviso, al di sotto della sua storia che è sempre stata quella di un paese che ha saputo innescare processi di dialogo anche laddove si erano determinate le più forti polarizzazioni, persino all’epoca della Guerra Fredda. Questo deficit io credo sia il fronte sul quale si deve tornare a operare perché non basta semplicemente l’invio delle armi e lo schierarsi dalla parte dell’Ucraina se non c’è contemporaneamente una iniziativa politico diplomatica siamo destinati certo a inviare armi, ma sempre di maggior capacità distruttiva a fronte di altre armi che sull’altro fronte saranno dispiegate. Questa è una spirale pericolosissima che, come è stato detto, può anche riportare verso l’olocausto nucleare. Quindi il tema dell’oggi è la politica e non basta neanche invocare una iniziativa diplomatica, a questo punto si tratta di fare proposte concrete: chi parla con la Cina, chi parla con l’India, quali sono le sedi nelle quali queste grandi potenze possono dispiegare ed esercitare una funzione? Tutto questo io lo vedo drammaticamente assente dal dibattito politico e fino qui ahimè dal dibattito interno al Partito Democratico.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.