Con l’Assemblea nazionale costituente, che ha approvato con spirito unitario il nuovo Manifesto dei valori, è entrato nel vivo il congresso per il rilancio del principale partito d’opposizione, colpito dalla sfiducia e dagli istinti di disgregazione. Quanto sono fondate le preoccupazioni circa la tenuta del Pd dopo le prossime assise? Non ha torto Luigi Zanda a reclamare un segretario che conosca l’organizzazione e sia capace di risolvere i nodi che si sono accumulati nel tempo. Per un partito, avere una struttura funzionante secondo regole efficaci rappresenta la prima condizione di democrazia e di capacità di ascolto della società. Senza un’organizzazione che procede con tempi, istanze partecipative, centri di elaborazione, c’è solo l’ingannevole leadership forte che copre una legittimazione personale sciolta da legami e dal senso di responsabilità collettiva. Il segretario di turno comanda (ottiene conformismo solo perché decide in ultima istanza le candidature) e in nome dell’investitura diretta che lo collega al cosiddetto “popolo delle primarie” lascia appassire ogni dialettica nei gruppi dirigenti, ogni socializzazione politica nelle sedi periferiche.

Un partito può declinare per un eccesso di autocrazia, che isola la nomenclatura da sensibilità, culture e interessi. Ma può anche volatilizzarsi per un sovraccarico di (falsa) democrazia, che lo rende un’evanescente struttura scalabile perché in fondo invertebrata. Uno dei limiti sostanziali incontrati dal modello di partito inventato al Nazareno risiede in una visione liquida dell’organizzazione che accelera l’evaporazione della figura dell’iscritto, del militante. Invertire questa evanescenza del partito-società è un passaggio ineludibile per la ricostruzione. Su questo cruciale terreno persistono ambiguità. Dopo aver ottenuto deroghe statutarie per partecipare alla corsa per la segreteria, Schlein ha incassato anche un ulteriore riconoscimento: la possibilità di votare in rete. La mistica del partito aperto che allarga gli spazi della democrazia in realtà distrugge la vitale (per la democrazia stessa) parzialità del partito politico. È per questo un vero guaio che il Pd sia l’unica organizzazione al mondo a far eleggere il proprio segretario anche dai nemici (tra i partecipanti alle prossime primarie, infatti, ci saranno, rappresentando oltretutto il 25% del totale, elettori di centro e di destra).

Con il “voto onSchlein”, la candidata impone una venatura nuovista che conserva l’antica bizzarria organizzativa di poter conquistare la leadership grazie ai passanti e alla inedita figura del militante ignoto, che non parla, non discute, non si palesa in pubblico, ma clicca un nome su una piattaforma online. Il tema del nuovismo, e della estraneità agli apparati come valore, continua a tirare se Schlein sostiene che “per me è più naturale un dialogo con la base che con i gruppi dirigenti. Parliamo una lingua nuova che non tutti capiscono”. Tutti gli ultimi segretari, oltre ai capi delle correnti più agguerrite, non capiscono la “lingua nuova”. Comunque, in un’operazione di conservatorismo nuovista, sono schierati con lei, che però costruisce l’immagine di sé come libera personalità estranea alla classe politica. Nelle sue uscite, la candidata alla segreteria precisa che i gazebo aperti a tutti costituiscono un “fatto identitario”. L’accanimento per il voto online per lei si giustifica perché “non è questione di regole, ma politica, identitaria”. Un partito, definito il “partito empatico”, può ritrovare in una procedura, ovvero nell’apertura al voto del militante ignoto, la propria identità oscurata. Oltre che una carenza di visione, il voto in rete colmerebbe anche il vuoto di radicamento sociale. Grazie al computer e all’accesso con Spid al partito-piattaforma, infatti, una forza politica “empatica” può finalmente recuperare alla causa “le classi più povere” e assicurare la “partecipazione delle fasce più fragili”.

Sulla base di questa convinzione, che cioè le regole costituiscono una identità, riceve l’appoggio anche di una parte della sinistra che intende spingere il Pd al di fuori dell’isola della ztl. Oltre all’ipotesi fallace che a tenere lontani dalla partecipazione i ceti popolari e i residenti delle periferie sia semplicemente la mancata previsione di un voto su tastiera, si avverte la sopravvivenza di una concezione populistica della politica, che non ha risparmiato neppure il Nazareno. Sarà anche “empatico” questo partito, ma rinuncia ad ogni connessione sentimentale, non credendo nel corpo, nella fisicità dell’azione politica. Un freddo clic, senza dialogo, scontro, argomentazione, esaurisce il senso della militanza fittizia in un partito-piattaforma. A residuare è solo un soggetto dalla flebile “identità digitale”. Però il contatto, il corpo che parla, si scalda, si appassiona, manda a quel paese l’altro, è il fondamento della politica. Eric J. Hobsbawm (Anni interessanti, Rizzoli) ricorda questa ineliminabile componente corporea dell’agire collettivo, con moltitudini che gridano slogan, cantano e sventolano bandiere.

Tornando alle esperienze degli anni ’30, da giovane ragazzo appena entrato nella tragica e anche folle organizzazione comunista tedesca, rievoca le ore di marcia sulle note dell’Internazionale, in un tempo che volgeva alla catastrofe dell’estetizzazione bruna della politica: “Dopo il sesso, l’attività che permette di combinare al massimo grado esperienze corporee con intense emozioni è la partecipazione a una manifestazione di massa in tempi di grande esaltazione pubblica. Ma al contrario del sesso, che è essenzialmente individuale, una manifestazione di massa è un’esperienza per sua natura collettiva e al contrario dell’orgasmo almeno per gli uomini – la si può prolungare per ore. D’altro canto, al pari del sesso, implica un’azione fïsica – marciare, urlare slogan, cantare – attraverso la quale si esprime la fusione dell’individuo nella massa, e questa è l’essenza dell’esperienza collettiva”. Pure in tempi fortunatamente lontani dalla “grande esaltazione pubblica” della guerra civile europea, un partito rimane sempre un frequentatore di spazi fisici, un utilizzatore di slogan, un costruttore di rapporti intersoggettivi.

Se davvero il Pd vuole ritrovare un significativo sostrato popolare, più che alle pratiche della rete, dove navigano sconosciuti che del piacere di chiamare i propri interlocutori “compagni” non sanno che farsene, deve rivolgersi all’invenzione organizzativa, per rimediare ai guasti del leaderismo senza legami sociali e passioni coinvolgenti. Il voto online per le elezioni politiche (e-democracy) va distinto dalle aperture verso l’e-government, l’e-administration, ma soprattutto dal voto in rete per scegliere un segretario di partito. Il “Civis Digitalis” presenta alcuni nodi irrisolti, che non sono solo relativi ai buchi neri che spezzano i requisiti di sicurezza del voto. La criticità principale è di natura costituzionale. Secondo il teorico della politica Hubertus Buchstein (Online-Wahlen, Springer, 2002), con il voto online da casa la garanzia dell’obbligo di segretezza passa dallo Stato ai cittadini. E ciò contiene profili di privatizzazione del rapporto di legittimazione del potere che rendono il voto dal divano “una sorta di applicazione politica dell’e-business” legalmente inammissibile come pratica esclusiva di e-democracy. Ma è soprattutto per la figura aporetica del “compagno digitale” che sorgono perplessità.

Il primo tentativo al mondo di svolgere congressi virtuali, con discussioni e votazioni in rete, è stato condotto dai Verdi tedeschi nel BadenWürttemberg dal 24 novembre al 3 dicembre 2000. L’obiettivo era quello di lanciare il mito della democrazia elettronica, nel segno della leggerezza postpartitica, e di suscitare una grande attenzione negli organi d’informazione per garantire l’adeguata copertura ad un’epifania del populismo gentile. Gli stessi esponenti dei Verdi, che rilevarono “il travolgente interesse dei media” per l’iniziativa, non nascosero il timore che quel tipo di politica virtuale potesse approfondire la deriva della cultura politica. La mediatizzazione di un partito virtuale lascia infatti evaporare la densità organizzativa dell’agire politico, avvicinando il compimento dell’ideologia individualistica della radicale disintermediazione. In conclusione, per la vita interna di una forza politica la questione del voto online è ancora più spinosa della presenza di legislazioni elettorali che riconoscono il voto elettronico, per corrispondenza. Un partito non è concepibile senza uno spirito di fazione, di demarcazione dagli altri, di delimitazione del proprio campo, con soggetti che si riconoscono.

Una leadership nominata dai passanti e persino dai nemici è un assoluto non-senso (anche costituzionale). Se il male di vivere del Pd dipende da una carenza di insediamento sociale, è perlomeno dubbio che, affidandosi ai cittadini di passaggio e al volto assente dei militanti ignoti, possa recuperare capacità di iniziativa e di rappresentazione di “parte” per trasformare la realtà. L’Assemblea nazionale ha ristretto i propositi di una radicale fase costituente. E ha optato per una riforma di tipo più incrementale. Per riprendere l’iniziativa servono comunque pensiero politico (che non si improvvisa) e anche una dose di buon senso utile a condividere dei semplici accorgimenti ben mirati. Al nome e al simbolo attuali, vista l’indisponibilità di settori rilevanti del Nazareno al ritocco, andrebbe sempre affiancato lo stemma, ora impiegato solo per le elezioni europee, con il riferimento ai Socialisti e Democratici. E a un partito senza parole che scaldano basterebbe, per ritrovare un senso mobilitante, mostrarsi conseguente con la sua appartenenza al PSE, e con coerenza adottarne i colori, gli inni ufficiali (l’Internazionale, ecc.). La ratifica di questo atto identitario scontato segnerebbe già una prima discontinuità.