La corsa alla segreteria dem
Primarie Pd, la sfida Bonaccini-Cuperlo per sopravvivere alla sindrome dell’asino buridano

Ha ragione Cuperlo a dire che in gioco è la sopravvivenza stessa del partito. Le reazioni (talvolta) maleducate che la sua candidatura ha provocato nel dibattito pubblico (anche in rete) confermano la gravità della malattia. Chi ha condotto il Pd alla deriva non parla, manovra nell’ombra inventando profili nuovissimi di leadership per far dimenticare le chiare responsabilità avute nel crollo di settembre.
Eppure, dopo una sconfitta, cercare di comprenderne la causa sarebbe la condotta più razionale da tenere, per poi agire di conseguenza. Lo chiariva bene già Machiavelli: “Quando si perde dee un capitano vedere se dalla perdita ne può nascere alcuna sua utilità, massimamente se gli è rimaso alcuno residuo di esercito”. Nel Pd nulla di questo è successo. Nessuno dei recenti capi ha ritenuto “necessario concionare e parlare pubblicamente all’esercito” per spiegare gli eventi catastrofici e rimotivare i soldati freschi di umiliazione. Se però non dà prova di resistenza, dimostrando buona capacità di tenuta delle minori truppe rimaste fedeli, il Pd viene mangiato da quelle forze politiche che dovrebbe coalizzare.
Ci sarebbe molto da analizzare in profondità per calibrare tattica e strategia in un campo sempre più insidioso. Ma, invece di parlare e confrontarsi con la forza di argomenti per rialzarsi dopo la brutta batosta, è arrivato il lungo silenzio. La stessa coalizione correntizia che ha provocato l’impasse dà ora le carte affidandosi alla agognata presa mediatica di un volto nuovo che copre errori vecchi. Pare che gli iscritti siano evaporati, mentre i sondaggi registrano una caduta inarrestabile nelle intenzioni di voto. L’analisi dell’accaduto dovrebbe precedere ogni azione, e invece interessa solo la ricaduta che una candidatura a sorpresa può avere grazie ai miracoli della comunicazione. Per una politica nuova non servono nuovi pensieri, basta un corpo giovane che può comandare un’organizzazione complessa solo perché non ha fatto parte di alcuna classe dirigente.
In queste condizioni, che accrescono lo sconforto per il rischio di estinzione, solo un confronto pubblico tra le diverse culture del Pd potrebbe arrestare la rovina, perché, insegna sempre Machiavelli, “parlare lieva il timore, accende gli animi, crescie l’ostinazione, scuopre gl’inganni, promette premii, mostra i pericoli e la via di fuggirgli, riprende, priega, minaccia, riempie di speranza, loda, vitupera e fa tutte quelle cose per le quali l’umane passioni si spengono o si accendono”. Riaccendere passioni in un organismo demotivato e privo di ogni speranza sarebbe un primo rimedio essenziale. Richiede però un’identità, uno spirito di lotta, un gruppo dirigente. Il male di vivere dei democratici deriva da una sensazione di irrilevanza che si diffonde tra i militanti allarmati: il nemico vince perché le forze più diverse si alleano in vista del voto, il Pd perde invece sempre più terreno nei consensi perché non ha alcuna capacità di aggregazione.
La vulnerabilità del Partito democratico poggia, in effetti, sulla condanna alla coalizione come passaggio obbligato in presenza di questa legge elettorale. È credibile nel ruolo di partito regista solo se costruisce delle alleanze competitive rispetto al blocco della destra. Proprio questa necessità di fare coalizione espone però i democratici alle richieste di forze paralizzanti che, proprio per trarre vantaggi tattici momentanei e logorare il Nazareno, tendono ad escludersi l’una con l’altra. Se non allestisce ampie aggregazioni elettorali, il Pd non può lucrare l’effetto positivo di mostrarsi come indispensabile regista coalizionale, declinando nella rilevanza sistemica. Se invece apre ad uno soltanto dei possibili alleati, rischia la subalternità politico-culturale al prescelto unto di riferimento, scatenando la rivolta rancorosa (ed elettoralmente fruttuosa) dell’escluso.
Se poi prova a coinvolgerli entrambi, è arenato dai loro veti reciproci. Sebbene i fatti confermino la risorsa coalizione come un ritrovato essenziale per la contendibilità del voto, sbaglierebbe il Pd a ridurre il congresso ad una semplice disputa per risolvere il problema, al momento insolubile, delle alleanze preferenziali. C’è un preciso progetto per liquidare il ruolo del Partito democratico che fa leva proprio sulla costruzione di barriere artificiali escogitate per ostacolare il suo mestiere di collante delle forze di centrosinistra. A Roma, Conte, salvato proprio dal Pd dopo l’abbraccio mortale con Salvini, procede con determinazione per abbattere i ruderi del Nazareno. Contro il comunista D’Amato, su cui non c’erano pregiudiziali delle forze centriste, il M5S inventa cavilli programmatici e procedurali per lanciare una candidatura tutta televisiva, utile solo per spezzare il fronte democratico e regalare anche la regione ai post-fascisti.
Per la nobile impresa, che replica quella siciliana, e quindi denota l’accanita strategia di perdere contro la destra pur di favorire la definitiva distruzione del partito del Nazareno, si arruolano anche talune frange di sinistra (per dirla con il Segretario fiorentino, “il più delle volte gli uomini sono offesi più dove dubitano meno”). Il Pd è impotente dinanzi agli abbandoni e non osa neppure immaginare legittime ritorsioni contro gli alleati di settembre fuggiti ora sotto le ali del ricatto grillino. Non ha la determinazione politica per sollecitare un confronto sulla loro permanenza in giunte, municipi, amministrazioni dove succhiano il nettare del piccolo sottogoverno. Ma allora per i democratici non ci sono alternative alla rabbiosa sensazione di isolamento? Prima di arrovellarsi attorno al tema delle alleanze, che al momento sono il suo nervo scoperto (e, si sa, “quando uno inconveniente è cresciuto, è più salutifero partito temporeggiarlo che urtarlo”), il Pd deve ritrovare le energie (culturali e organizzative) per non perire perché condannato, come l’asino di Buridano, a dover scegliere tra Calenda e Conte.
Oltre a guardare dentro di sé, per recuperare le forze che ai più sembrano ormai perdute, deve con grande curiosità attraversare la società reale e riallacciare i collegamenti con i soggetti del pluralismo (sindacale, civico, associativo, culturale). Le occasioni non mancano per rinvigorire uno spirito vitale di opposizione. Con una destra radicale che sta al potere nel segno dell’improvvisazione e della continua provocazione simbolica, per una forza appena sconfitta “la commodità può nascere dalla poca avvertenza del nimico, il quale, il più delle volte, dopo la vittoria diventa trascurato e ti dà occasione di opprimerlo” (Machiavelli). Un progetto credibile di opposizione culturale, istituzionale e sociale è il compito che il Pd deve assumere dinanzi all’assalto al costituzionalismo repubblicano già annunciato da Meloni.
Secondo alcuni, per uscire dall’angolo, servirebbero delle cesure generazionali, come quelle invocate dal gran manovratore Franceschini, che tutti i candidati appoggiati ha reso re e tutti i segretari ha poi infilzato come tiranni. Il suo correntone centrista, però, oggi conta meno negli equilibri del Pd perché si è diviso e disperso nel sostegno ai vari sfidanti. Anche l’eterogenea area della sinistra interna si è sgretolata. Ad abbandonare Cuperlo sono dirigenti come Provenzano e Speranza, di ascendenza socialista, ma estranei alla grande sintesi craxiana, e quindi più sensibili alle corde neomassimaliste di figure che aspirano alla leadership per effetto di parole d’ordine radicali. Nuovista è diventato anche Orlando, che con il sostegno ai temi di Schlein ha trovato lo stradario per uscire dalla Ztl e la sensibilità di classe necessaria per battere l’ordoliberismo e radicare il Pd nel mondo del lavoro.
La sensazione è che le trovate della comunicazione e i posizionamenti strumentali dei dirigenti, al momento, prevalgano, in una fase congressuale del Pd che si presenta priva del pathos necessario ad una forza in lotta per la sua stessa esistenza. In troppi, nei piani alti del Nazareno, intendono dimenticare l’impatto delle scelte politico-strategiche compiute dopo il 2019 e affidano alla rottamazione generazionale le esigue possibilità di ripresa del partito. Ma tutto questo magismo della comunicazione ostacola un costruttivo confronto tra le posizioni più solide, come quelle di Cuperlo e di Bonaccini.
La competizione e la convergenza tra queste due personalità, con diverse storie e culture di riferimento, può restituire un ruolo al Pd, altrimenti condannato all’oblio. Al loro partito devono promettere che prima bisogna lottare contro la destra radicale con tutta l’intransigenza richiesta e poi, da una posizione di forza recuperata sul campo della battaglia politico-ideale, si può certo tornare a filosofare sulle alleanze possibili.
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