Sono passati quasi 24 anni dalla follia della fuga nell’auto inseguita dal branco di paparazzi e cronisti di rosa che costò la vita, la notte del 31 agosto 1997, a Diana Spencer, 36 anni, ancora principessa di Galles pur se non più “altezza reale” dopo il divorzio dal principe Carlo, ufficializzato esattamente un anno prima. Regina, almeno in parte suo malgrado, dei tabloid e del pettegolezzo sapido. Da allora lo spettro inquieto e senza pace della principessa non ha mai smesso di perseguitare la famiglia reale, deciso a non permettere che il tempo restituisca a Buckingham Palace l’aura fiabesca che la sua tragedia ha cancellato una volta per tutte.

Domani, per la corona del Regno sempre meno Unito, sarà un’altra giornata nera. Harry e Meghan, i principi “scappati da casa” e trasferitisi negli Usa, racconteranno a Oprah Winfrey un’ennesima storia fatta di gelo e aridità. Evocheranno il fantasma di Diana, madre di Harry e del fratello-nemico William, secondo nella linea di successione al trono. Lo faranno con le parole e non solo con quelle: Meghan sfoggerà il braccialetto di Diana, farà in modo che il particolare si noti. Il messaggio è già chiaro, veicolato dalle anticipazioni dell’intervista esplosiva che Oprah si è premurata di far circolare in anticipo, conscia di avere tra le mani l’ennesimo colpo grosso: «Noi siamo Diana. Vittime dello stesso deserto dell’anima che ha ucciso lei».

Non sono passati tre mesi dall’ultimo scossone, la quarta stagione della seguitissima e pluripremiata serie Netflix (che di sfuggita passa a Harry il fuggiasco un cospicuo stipendio) The Crown, biografia appena romanzata di Elisabetta II: stagione dedicata appunto ai difficili rapporti tra la corte e Shy Di, la timida Diana. La regina e il nipote perbene, William, si sono urtati nel vedere per l’ennesima volta messa a nudo, di fronte a milioni di telespettatori, la sofferenza della giovane principessa, mai amata, molto tradita, a sua volta infedele. La solitudine. La bulimia. Il vomito dopo essersi ingozzata. Le corna appioppate e ricevute. Il gelo.

Il trauma sarebbe stato più contenuto, forse avrebbe solo lambito la “sacralità” della Corte, che da quelle parti è una cosa seria, senza la scenografia da favola allestita apposta per rilanciare proprio quella sacralità, restituire bagliore a quel mito già allora un po’ appannato. Senza le nozze in mondovisione, la Cattedrale di San Paolo prescelta al posto della consueta Westminster per fare posto a 2000 pezzi da novanta di sangue sia blu che rosso, senza i 750 mln di telespettatori e i 600mila londinesi assiepati per la strada, lo strappo sarebbe stato meno vistoso: in fondo solo una coppia male assortita pur se coronata. La disillusione e il velo squarciato furono invece proporzionali alla favola disneyana messa in scena nel fasto spettacolare del 29 luglio 1981, solo per essere poi impietosamente messa a nudo nella sua falsità.

Non era certo la prima volta che la vita privata dei regnanti rischiava di far tremare la corona. L’abdicazione di Edoardo VIII, nel 1936, era stata un colpo quasi fatale, la vita privata di Margaret, sorella ribelle di Elisabetta, aveva già fatto versare inchiostro rosa a fiumi negli anni ‘60. La differenza fu il carattere di Diana, la sua imprevista e forse imprevedibile indisponibilità a farsi cancellare dall’etichetta di corte. Non era previsto che la “timida Diana”, sofferente sin da piccola per la lontananza della madre divisa dal visconte padre, studentessa meno che mediocre ma apprezzata per la generosità e il talento nella ginnastica e nella danza, avesse carattere. Non era contemplato che non si accontentasse del matrimonio triste con un uomo che aveva incontrato solo 12 volte prima delle nozze, che le aveva confessato di non amarla alla vigilia dei fiabeschi sponsali e che, come tutti, non si aspettava che il particolare creasse problemi.

Diana dimostrò di avere più carattere del previsto. Uscì dalla parte che le era stata assegnata. Fece imbestialire la regina violando la rigida etichetta nell’abbigliamento, nell’uso dei gioielli, nelle frequentazioni mondane, nell’impegno sociale crescente nel tempo. Doveva essere una principessa triste e discreta, diventò una regina presa sempre più di mira dai media, che la adoravano ma proprio per questo la assediavano, la spiavano, la inseguivano senza posa. Le sue infedeltà e quelle del marito diventarono di dominio pubblico, oggetto non solo di chiacchiere incessanti ma anche di film, libri, confessioni, centinaia di articoli.

Finirono per essere discusse in ogni pub e in ogni salotto d’Inghilterra non solo le rispettive relazioni dei principi di Galles, ma anche l’infelicità della principessa, i suoi tentativi di suicidio, la sua bulimia, i suoi tentativi di trovare una sponda emotiva nella famiglia reale, non del tutto falliti con il principe Filippo, rimasti inascoltati con Elisabetta. Per la Corte quel matrimonio, che avrebbe dovuto rialzare le quotazioni della corona nel cuore dei britannici, diventò un problema, anzi il problema principale. Diana, nonostante tutto, tenne botta. Separata dal 1992 ma non divorziata, perché in casa Windsor in divorzio era parola tabù, si trovò due anni dopo ad ascoltare il racconto dei tradimenti di Carlo, e le accuse per le sue avventure, in diretta tv, dalla viva voce del reale consorte. Reagì presentandosi la sera stessa a un party organizzato da Vanity Fair con un abito estremamente succinto e vistoso che i media ribattezzarono subito Revenge Dress.

Dopo un anno fu lei stessa a presentarsi a propria volta di fronte alle telecamere per raccontare i particolari del suo matrimonio fallito. La frase con la quale commentò la relazione tra Carlo e l’attuale moglie del principe, Camilla Parker Bowles, fece epoca: «Eravamo in tre in quel matrimonio. Un po’ troppo affollato». A stretto giro Buckingham Palace letteralmente ordinò il divorzio. La principessa era miracolosamente riuscita a tenere segreta la relazione con il cardiochirurgo Hasnath Khan. Quella successiva, col miliardario Dodi al Fayed, finì invece in pasto ai tabloid e innescò la nuova raffica di agguati e pedinamenti da parte della stampa: che finì con l’incidente sotto il tunnel Pont de l’Alma a Parigi, nel quale persero la vita Diana, Dodi e l’autista francese. Il velo di magia, certamente fittizio ma non del tutto, che circondava la corte, basato sulla tacita complicità tra la corona e i sudditi, fu stracciato una volta per tutte.

Eppure sarebbe difficile assegnare e distribuire le colpe nella tragedia di Lady D. Tutti provarono a fare la parte assegnatagli dal ruolo, dall’abitudine, dall’etichetta, dal mestiere. L’aridità dei cortigiani, la freddezza della famiglia reale, il vampirismo dei media, ma anche i tradimenti di Carlo e Diana costretti entrambi a un matrimonio con pochi sentimenti e nessuna passione, formavano un copione già scritto, una sceneggiatura rigida. Erano i personaggi e i tempi a non poter più reggere quella sceneggiatura, a non poter sostenere più la parte. Tra i tanti comprimari, la regina e la principessa svettano perché nel collasso della monarchia, o almeno del suo liturgico fulgore, incarnavano gli opposti: Elisabetta, da sempre pronta a sacrificare tutto pur di rispettare rigidamente un ruolo tra i più costrittivi. Diana, la prima a trovare la forza per infrangere quella regola.