Promessa mantenuta. Irlanda, Norvegia e Spagna, una settimana dopo l’annuncio dei rispettivi leader, hanno ufficialmente riconosciuto lo Stato di Palestina. Una scelta che i tre governi hanno voluto fare in questo periodo anche per lanciare un segnale politico preciso nei confronti dello Stato ebraico, e in particolare del governo di Benjamin Netanyahu. E l’esecutivo israeliano, pur manifestando in modo molto chiaro la rabbia per questa decisione, non ha potuto fare altro che osservare uno dei momenti più difficili delle relazioni con l’Europa. Il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, si è rivolto specialmente nei confronti della Spagna con parole di fuoco.

“Khamenei, Sinwar e il vice primo ministro Yolanda Diaz chiedono l’eliminazione di Israele e la creazione di uno stato terroristico islamico palestinese dal fiume al mare”, ha scritto il ministro su X. “Sanchez, quando non licenzi la tua vice e annunci il riconoscimento di uno Stato palestinese, sei complice di incitamento al genocidio degli ebrei e a crimini di guerra”, ha scritto Katz. Ma le frasi del capo della diplomazia israeliana, oltre a suscitare lo sdegno di Madrid (che prepara una risposta coordinata con gli altri esecutivi), non possono ormai modificare la rotta intrapresa da questi Paesi. L’ira mostrata da Katz rischia di essere più una dimostrazione di debolezza più che un atto di forza.

E la conferma arriva proprio dall’Europa, dove ieri sono filtrate le voci di eventuali sanzioni dell’Unione europea che colpirebbero l’accordo di associazione con Israele. Provvedimento che sarebbe il modo per Bruxelles di dimostrare la sua piena condanna dell’attacco a Rafah che ha provocato la morte di 45 civili. Tema su cui è tornato a parlare anche il presidente francese Emmanul Macron, che ieri ha definito “spaventosa” la situazione nella città palestinese e chiesto a Israele di fermare le operazioni. “Oggi non esiste un’area sicura per i civili palestinesi” ha detto il capo dell’Eliseo in conferenza stampa con il cancelliere tedesco Olaf Scholz a Meseberg, “la risposta al terrorismo di Hamas non può essere un’operazione di terra continua”. La strage resta sotto la lente di tutta la comunità internazionale.

E il rischio per Israele è che il muro alzato dal resto del mondo diventi sempre più alto. Netanyahu ha parlato di un “tragico incidente”. Ma è chiaro che questa indicazione non possa bastare né alle Nazioni Unite né agli Stati Uniti. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, lunedì sera aveva parlato di un “orrore che deve finire”. Mentre l’amministrazione Biden, preoccupata anche dai risvolti politici in chiave interna (i democratici sembrano sempre meno convinti dell’alleanza militare con Israele) starebbe valutando se quanto avvenuto a Rafah sia la violazione di una delle linee rosse definite dalla Casa Bianca per il sostegno militare allo Stato ebraico. Per Joe Biden si tratta di un compromesso che si gioca su un filo molto sottile. L’amicizia con Israele non è mai stata messa in discussione.

Ma la guerra a Gaza, le divergenze con Netanyahu e le proteste interne stanno mettendo in difficoltà questo storico rapporto. La strage di Rafah rischia di essere un punto di non ritorno, e per questo anche il governo americano sta valutando insieme alle Israel defense forces quanto accaduto domenica. Ma intanto, il governo di Netanyahu ha fatto capire di volere proseguire dritto nel suo piano per raggiungere tutti gli obiettivi prefissati all’inizio della guerra. E lo confermano le ultime notizie che giungono proprio dalla città meridionale della Striscia di Gaza, in cui i testimoni oculari citati dalla Bbc hanno raccontato di avere visto i carri armati israeliani manovrare nei pressi della rotonda di al-Awda, centro nevralgico di Rafah. I bombardamenti sul centro abitato proseguono senza sosta. E, secondo al Jazeera, vi sarebbero stati altri 21 morti provocati da un nuovo bombardamento dell’Idf. La situazione è incandescente, e rischia di mettere a repentaglio anche l’ultimo disperato tentativo di negoziato sugli ostaggi. Il governo israeliano, secondo le indiscrezioni, ha presentato una nuova proposta ai mediatori internazionali, cioè Egitto, Qatar e Stati Uniti.

Il Cairo ha detto di volere fare tutto il possibile per accelerare sul negoziato: ma per ammissione degli stessi funzionari della sicurezza egiziani, l’operazione militare a Rafah rischia di avere un impatto negativo su una trattativa che da mesi appare più che in salita. Soprattutto perché Hamas ha più volte fatto capire di non avere il pieno controllo sulle condizioni dei rapiti e sulla loro localizzazione. Il video diffuso ieri dal Jihad islamico palestinese, che mostra uno dei rapiti, Alexander Sasha Trupanov, è un segnale eloquente del fatto che le persone sequestrate il 7 ottobre continuano a essere una terribile arma psicologica contro il governo di Israele e per premere su un’opinione pubblica profondamente ferita per la mancata liberazione degli ostaggi.