Nelle arringhe del 15 Maggio scorso i legali del Sudafrica avevano chiesto che la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ordinasse a Israele di ritirarsi da Gaza, sul presupposto che quell’ordine di ritiro fosse l’unico strumento capace di scongiurare l’ulteriore deterioramento delle condizioni della popolazione civile. Le richieste sudafricane erano innanzitutto riferite alla situazione di Rafah, area in cui sono concentrate centinaia di migliaia di persone potenzialmente esposte alle operazioni belliche. “Se cade Rafah”, aveva detto uno dei legali del Sud Africa, “cade Gaza”.

Quando ancora il presidente della Corte, venerdì 24 maggio, leggeva il testo della decisione, le agenzie di stampa e le versioni online di alcuni quotidiani riferivano che dall’Aia veniva l’ordine a Israele di “cessare le operazioni a Rafah”. Una sciocchezza. La Corte, infatti, ha ordinato una cosa ben diversa: non la cessazione delle operazioni a Rafah, ma la cessazione di quelle che possono causare la lesione dei diritti, protetti dalla Convenzione contro il genocidio, di cui è plausibile che goda la popolazione palestinese. Non significa, tanto per capirsi, il “cessate il fuoco” né significa ciò che invece chiedeva il Sudafrica, appunto il ritiro totale dall’area. Le misure ulteriori disposte dalla Corte costituiscono la riaffermazione – e la richiesta di “implementazione” – di quelle già disposte in gennaio e in marzo: in buona sostanza, l’obbligo di Israele di assicurare il flusso degli aiuti umanitari, innanzitutto garantendo il funzionamento e gli accessi dei valichi.

Infine, l’ordine a Israele di garantire la possibilità di investigazioni da parte di commissioni e personale di autorità indipendenti. Ancora nel caso della decisione di venerdì 24 maggio, come già nel caso delle due precedenti, la Corte non considera se, e in quale misura, il disastro umanitario della popolazione civile sia prodotto anche per contributo dell’altra parte in conflitto, vale a dire la dirigenza della soldataglia terrorista che usa quei civili come scudi umani e persino si augura pubblicamente che ne muoiano quanti più è possibile. Così come la Corte non indaga, quando si occupa dei valichi, sul fatto documentato che a comprometterne l’apertura non sono necessariamente i presunti intenti genocidiari di Israele ma, in modo quanto meno concorrente, i grappoli di razzi che per tre volte nel giro di una settimana sono piovuti sul passaggio di Kerem Shalom (nonché, ma questi sono dettagli ininfluenti, sulla città israeliana di Ashkelon). Cambia poco, questa decisione. Il Sudafrica ha perso un round che difficilmente poteva vincere. Israele vuole vincere a Rafah: cioè dove, vincendo al costo di troppi civili coinvolti, rischia di perdere.