L’amaro lucano si produce sempre, ed è tutt’altro che amaro. La ricetta del cavaliere Pasquale Vena ha cent’anni ed è segreta, come quella della Coca cola. Venticinque milioni di fatturato, quattro milioni di bottiglie all’anno, nove etichette di prodotto, marchio storico nazionale, esportazione in trenta paesi. Vedremo con i dazi. E dire che un paio di lustri fa si saccheggiò l’etichetta non per indicare il denso distillato di erbe appenniniche, ma una regione, la Basilicata, dove non era più dolce vivere. All’improvviso l’Italia mise a fuoco la Basilicata, nel modo peggiore, per via giudiziaria e per via di una doppia Corona, il fotografo e il re sabaudo, buonanima, che si trovarono citati in tribunale a Potenza.

Tanta fama non l’aveva avuta la regione neppure con la scoperta del petrolio. Eppure i giornali avevano titolato bello grande, il “Texas d’Europa”. La quiete di una società senza conflitti interni, che si faceva scivolare addosso le cose e le dava per scontate. Funzionava bene la sanità e si spendevano bene i fondi europei, lontano dai grandi circuiti mediatici. Ma all’inizio del nuovo secolo, la Basilicata diventa all’improvviso una “terra amara” dove l’unico baluardo della legalità era un manipolo di magistrati buoni, ai quali un altro manipolo di magistrati cattivi voleva rendere la vita difficile.

In quel preciso momento iniziò, in forte ritardo rispetto alle altre regioni italiane, la seconda Repubblica, più o meno in coincidenza con la prima grande recessione del 2007. L’Emilia del Sud, biancorossa senza essere mai stata lambita dal berlusconismo, in equilibrio tra sistema di potere e bisogni, con la prima crisi economica, sbandò. E zampillarono i problemi. Ma non zampillava il petrolio? Sì, in verità non è proprio che zampilla, come se bastasse mettere una pompa sottoterra e riversarlo, ma ce n’è, con potenzialità tuttora enormi e in un contesto totalmente cambiato. All’epoca ci fu uno strano cortocircuito.

L’antagonismo ambientale: molti parlavano, pochi studiavano

La “questione petrolio” non era ancora una “questione” e nessuno faceva caso a quello strano contatore all’ingresso del palazzo della Regione, che calcolava i numeri dei barili estratti ogni giorno in Val d’Agri. 80mila barili al giorno. Fatevi il conto delle royalty, anzi, non c’è bisogno di consultare archivi, il bilancio della regione poteva garantire, “senza pensieri”, università, sanità, cococo, fondi sociali e diritti diffusi, che proprio perché diffusi, cioè a beneficio di tutti, cominciarono a non essere più percepiti come individuali. Succede così quando, come si dice? L’economia raffredda. Era dunque tempo di mobilitarsi. E d’ingaggiare la battaglia. Per cosa? Per l’ambiente. L’antagonismo ambientale divenne uno strumento di lotta sociale. Molti parlavano, pochi studiavano. Per anni il dibattito politico sì è attorcigliato attorno all’ipotesi dell’aumento della produzione di idrocarburi oltre i 100mila barili al giorno in Val d’Agri, dove Eni si avviava a rafforzare e digitalizzare il centro olio, uno dei più moderni della sua flotta, e la sorella francese, Total, era in attesa di mettere in produzione il giacimento di Tempa Rossa (ci sono voluti 20 anni).

Insomma, si estrae di qua, si estrae di là, ma in sostanza, era la domanda, noi, noi cittadini lucani, cosa ci guadagniamo? “Noi cittadini lucani” era il nome di un combattivo comitato capitanato da una docente d’italiano e latino del liceo scientifico Galilei, quello dove hanno studiato l’ex ministro della salute Roberto Speranza e il ceo di Ferrari, Benedetto Vigna. A un certo punto non si capiva più nulla, la politica contro la politica, i comitati contro la politica, la politica contro i comitati. Arrivò il presidente del Consiglio Matteo Renzi e ci mise del suo, “basta con questi comitatini”. L’ha pagata cara, ma oggi il Tar Basilicata l’ha moralmente risarcito perché ha scritto che non è sufficiente essere molto attivi sul fronte ambientale e raccogliere sulle piattaforme social un gran numero di lettori. Bisogna dimostrare di essere rappresentativi come numero di adesioni ed è necessario documentare che gli interessi rappresentati siano realmente diffusi. Altrimenti l’associazione – scrivono i giudici – è autoreferenziale.

I 40 abitanti di Taccone

Sono trascorsi un po’ di anni, ma la crisi economica non è passata, perché nel frattempo sono arrivate una pandemia e un po’ di guerre. Qualcuno si applica a capire come funziona l’oscillazione del prezzo del petrolio, che poi neppure si usa più la parola “petrolio”: l’industria ha scomposto foneticamente le componenti chimiche degli idrocarburi, “oil & gas”, mancherebbe l’acqua, per essere precisi, ma sarebbe troppo lungo in una sola sigla. Per la fortuna dei titoli di giornale. La Basilicata, dentro le dinamiche del disordine globale, ha cominciato a farsi i conti e a chiedersi se è stata troppo distratta sulla ricchezza sopra cui cammina. L’Osso d’Italia è sempre più spopolato, per fare un esempio: Taccone, frazione di Irsina dove fu costruita una stazione delle ferrovie Appulo lucane negli anni ’50, durante la riforma agraria, conta circa 40 abitanti. Dal 2000 la Basilicata ha perso 70 mila abitanti: più dei cittadini di Potenza. L’export nel 2024 è calato di oltre il 40%. Vanno ancora bene i nutella biscuit, non sappiamo nei prossimi mesi, ma l’industria dell’auto, lo vediamo tra un attimo, è un’altra cosa.

La Regione non è più rossa, e ha ridotto anche l’ordine del giorno della lotta verde. Il polverone di una decina di anni fa aveva mischiato i ruoli, confondendo il business industriale dell’energia con la titolarità della gestione delle royalty. Che saranno servite pure a costruire qualche piscina di troppo in Val d’Agri, ma hanno consentito e ancora consentono alla Regione di avere un bel cash, d’emblée. La transizione politica (che ha portato al governo della regione un generale della Finanza, il forzista Vito Bardi) e la transizione ecologica sono nate più o meno insieme da queste parti. Ma proprio quando l’Agenda 2030 entrava in tutti i comunicati ufficiali, che rischiavi di vedertela regalata pure a Natale, proprio allora la Storia iniziava a divertirsi. Melfi, la città che aveva saputo imbrigliare il potere dei baroni del regno, arrancava a salvare il distretto dell’auto, principale export della regione. Quando arrivò a Melfi Sergio Marchionne sembrava un nuovo Federico.
Quello svevo aveva consentito al popolo di sedersi accanto a nobili e clero in una specie di liberismo ante litteram che riduceva le barriere doganali per favorire le attività dei mercanti. L’uomo col maglione blu assicurò auto e lavoro per tutti.

La crisi dell’auto

Ma l’Europa ormai chiedeva altro, aveva obiettivi diversi, e tutto sommato l’energia del vento andava a gonfie vele in Basilicata. Nel frattempo erano arrivati i progetti del Pnrr e, con grande orgoglio nei comunicati stampa, arrivò anche la parola “idrogeno”. Tutti, in realtà, si erano accorti che era finita l’età dell’oro dell’auto, e poiché c’è sempre qualcuno che chiede il conto, cominciarono a farlo gli industriali. Bonomi un bel giorno venne a Potenza e disse: “Siamo all’effetto Cuba, continuate pure a mettere le colonnine per le ricariche, ma nessuno acquista più un’auto nuova, quelle elettriche costano troppo”. E allora, comprereste un’auto usata? Sì, a occhi chiusi. Anzi, ci teniamo quella che abbiamo.

E siamo ad oggi e al balletto dei dazi americani. La settimana scorsa la produzione di Stellantis si è fermata di nuovo, perché mancano i componenti e i sindacati sperano in una tregua delle bizze dall’altra sponda dell’Atlantico. La crisi dell’auto ha reso tutti più guardinghi e così, con la preoccupazione di un effetto Chicago oltre all’effetto Cuba, è stato proprio il sindacato a fare un passo avanti quando Eni, che è titolare della concessione Val d’Agri insieme a Shell, ha annunciato di rinunciare al procedimento per il rilascio dell’autorizzazione ambientale del pozzo Pergola 1, nel territorio di Marsico Nuovo. La partita non è chiusa, e il Cane a sei zampe non ha nessuna intenzione di rintanarsi anche perché, pure nella bufera, i livelli occupazionali non sono mai diminuiti (i barili sì, ma potrebbero aumentare) per un antico patto sociale che ha sempre legato la compagnia a questa regione, dai tempi di Mattei, che si innamorò di Sinisgalli, il poeta e l’ingegnere di Montemurro.

Sembra un destino circolare, come l’economia. Che non è passata di moda, anzi. È passata di moda la fretta, l’acceleratore sulla transizione, e non è colpa di nessuno o un po’ di tutti, che è lo stesso. Ora, non bisogna farsi illusioni. Lo dice la parola stessa, fonti non rinnovabili. Prima o poi finiranno, ma non è questo il momento. Realisticamente, visto che ne abbiamo preso atto, bisogna essere conseguenziali e accelerare sulle autorizzazioni. Che spesso si fermano per cavilli amministrativi. Per non rimanere a secco.

Lucia Serino

Autore