L’inchiesta sulla camorra
La debole inchiesta su Maria Licciardi getta anche fango sul Cotugno
Capo dell’alleanza di Secondigliano, tra i trenta criminali più pericolosi d’Italia nonché fonte d’ispirazione per il personaggio di Scianel, la spietata camorrista della serie-tv Gomorra: sono giorni che la stampa locale e quella nazionale sono impegnate nell’affibbiare i più sinistri soprannomi a Maria Licciardi, la 70enne ritenuta reggente dell’omonimo clan e arrestata pochi giorni fa mentre era in partenza per Malaga. Dal momento in cui i carabinieri hanno eseguito il decreto di fermo, i giornaloni hanno pubblicato qualsiasi notizia, anche quella più insignificante, per accreditare Licciardi come donna crudele e spietata.
In realtà, questa prima parte dell’indagine condotta dalla Dda di Napoli tutto fa tranne che restituire l’immagine di una Licciardi disumana. A dimostrarlo sono soprattutto due episodi agli atti dell’inchiesta. Il primo: alle regionali del 2020, la numero uno dell’alleanza di Secondigliano avrebbe deciso di puntare su un candidato che, tuttavia, ha riportato soltanto 2.100 voti in tutta la Campania senza riuscire a essere eletto in Consiglio. In altre parole, la presunta mobilitazione della Licciardi e di esponenti del clan Mallardo non sarebbe bastata a far diventare il “loro” candidato consigliere regionale. Secondo episodio: per ottenere informazioni sulle condizioni di salute di una conoscente ricoverata al Cotugno, Licciardi avrebbe chiesto a un vigilante di informarsi tramite un’infermiera. Nessuna minaccia, nessuna intimidazione: solo un interessamento per una persona intubata dopo aver contratto il Covid.
Lungi dal voler “santificare” Licciardi – le cui eventuali responsabilità penali dovranno essere accertate dai giudici – la prima parte dell’inchiesta condotta dalla Dda fa emergere almeno due perplessità. La prima consiste nel tentativo di presentare la donna come una criminale efferata. Ed è un tentativo piuttosto maldestro, visto che a Licciardi si contestano reati gravi – associazione per delinquere di stampo mafioso, ricettazione, estorsione e turbativa d’asta – ma non tali da presentare “lady camorra” come una “bestia assetata di sangue”. E questo rappresenta un elemento di debolezza dell’inchiesta. Il secondo cortocircuito consiste nel prezzo dell’operazione appena descritta. Per demolire l’immagine di Licciardi, infatti, si getta fango su un’istituzione come l’ospedale Cotugno che tuttavia non è coinvolto in inchieste della magistratura né è oggetto di verifiche da parte di altre autorità.
In sostanza, da una parte si tende a drammatizzare la figura di Licciardi e dall’altra emerge l’immagine di una donna lontana dall’efferatezza dei personaggi di Gomorra; nel mezzo ci sono istituzioni come il Cotugno che finiscono nel solito tritacarne mediatico-giudiziario. È tollerabile? Si può sopportare l’almeno apparente inconsistenza di certe inchieste e, nello stesso tempo, la divulgazione di dettagli che hanno a che fare più col voyeurismo che col diritto d’informazione? È possibile che, in questo contesto, debba essere macchiata l’immagine di istituzioni come il Cotugno che sono da sempre considerate un’eccellenza in campo medico e tanto hanno contribuito, tra l’altro, alla lotta contro la pandemia? Sono interrogativi sui quali dovrebbe interrogarsi sia la magistratura sia il mondo dell’informazione, troppo spesso legati da un rapporto perverso che determina conseguenze devastanti per la vita, la carriera e la reputazione di tante persone.
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