Prendete un avvocato meridionale, magari leccese, di quasi cinquant’anni, amministrativista, colto, intelligente, democratico, che non ha mai fatto politica, che non ne conosce i riti, le abitudini, i fastidi, le idiosincrasie, che ha alle sue spalle una storia e una biografia robusta, ha idee, simpatie, passioni, non facilmente etichettatili, e che tiene follemente alla sua libertà; beh prendete questo avvocato e all’improvviso gettatelo dentro il vecchio Pci (il partito comunista di Togliatti e Berlinguer) proprio in quel periodo della storia nel quale il Pci sta per concludere la sua traiettoria, e il comunismo sta crollando sotto i sassi e il cemento del muro sgretolato di Berlino. Che dite, è un bell’esperimento, no? Il risultato di questo esperimento ha un cognome e un nome: Pellegrino Giovanni.

Nei giorni scorsi è uscito un nuovo libro nel quale Giovanni Pellegrino racconta la sua avventura politica, iniziata proprio agli sgoccioli degli anni ottanta, ma che l’ha portato a vivisezionare la storia della prima repubblica e della prima democrazia di massa italiana dalla fine degli anni sessanta fino al 2000. Il libro è intitolato “ Dieci anni di solitudine”, sottotitolo, “Memorie di un eretico di sinistra”, è edito da Rubbettino, 290 pagine, diviso in quattro capitoli e in 32 sottocapitoli, cita – spesso polemizzando – praticamente tutti i personaggi della prima Repubblica e in testa alla classifica delle citazioni ci sono due nomi: quello di Francesco Cossiga e quello di Massimo D’Alema.

È interessantissimo questo libro, specie per chi, come me, quegli anni li ha vissuti da dentro – dico da dentro il Pci e i partiti dal Pci germinati – e che vede scorrere di nuovo gli avvenimenti di tre o quattro decenni, più o meno, visti con occhi diversi dai suoi, ma mai faziosi, mai velati dal pregiudizio o da sfumature ideologiche. Perché il grande vantaggio che ha Pellegrino, è che ha potuto esaminare questa nostra storia guardandola da dentro e da fuori.

Sì, da dentro, perché quando poi nella politica si è tuffato, la politica, come fa con tutti, lo ha inghiottito. Ma anche da fuori, perché non ha niente da difendere, non ha schemi da salvare, tesi da dimostrare, non ha influenze alle quali piegarsi. Il libro dice “dieci anni”, ma quei dieci anni si riferiscono alla sua solitudine in Parlamento. Perché il racconto riguarda quasi un quarantennio. Oggi Pellegrino ha 84 anni, quando inizia la sua autobiografia ne aveva meno di cinquanta.

Naturalmente, leggendo il libro, non ho avuto l’impressione che tutta la sua ricostruzione sia giusta. Voglio dire: che coincida con l’idea che ho io di quello che è successo. Però, proprio per questo, sento il valore oggettivo di questa opera. Che ci racconta essenzialmente – criticamente – tre cose essenziali. Prima, che il Pci, almeno per molti anni, non è mai morto. E che il suo stalinismo, forse confluito nel giustizialismo, ma sempre guidato dalla Grande Ragion di Stato (non solo Ragion di Partito) è sopravvissuto all’89, al Pds, ai Ds, a Berlusconi e anche al Pd. Granitico. Con una sostanziale ostilità al libero pensiero, e anche però, almeno in una prima fase, con un certo amore, anzi un forte amore per il pensiero.

La seconda cosa che ci dice – e i lettori di questo giornale sanno quanto condivido – è che il giustizialismo – vissuto da gran parte della classe politica italiana come necessità e imperativo categorico – ha rovinato e corroso la seconda repubblica. L’ha immeschinita, l’ha impoverita e appiattita culturalmente. Diventando esso stesso – il giustizialismo – questione morale, sebbene fosse nato per risolvere la questione morale. Dico “questione morale” perché il giustizialismo è la cosa “politica” più reazionaria e moralmente corrotta che io conosca.

La terza cosa che ci dice è che la politica è vigliacca. Ha una tale venerazione per il potere – per il potere in quanto tale, non solo per il potere da conquistare – da non sapere mai dirgli di no. In qualunque forma esso si presenti: quella dell’economia, o della burocrazia, o della magistratura. E dirgli sempre di sì vuol dire, spesso, inchinarsi a dei veri e propri lestofanti. Ma magari – fate attenzione – riassumendo in questo modo il libro di Pellegrino io sto trasferendo un po’ troppo il mio pensiero – e la mia ira – nel suo racconto che ha il dono invece di essere sempre piano, chiaro e assolutamente sereno.

Diciamo che i fatti raccontati, assai minuziosamente e grazie a molte conoscenze dirette, ricordi, testimonianze, sono tre (più l’esperienza leccese alla guida della provincia). Il primo è Tangentopoli. Il secondo è l’affare Andreotti. Il terzo sono gli anni di piombo e la lotta armata. I primi due, Pellegrino li ha seguiti dal ruolo delicatissimo di Presidente della giunta delle autorizzazioni a procedere. Il terzo da Presidente della commissione bicamerale di inchiesta sul terrorismo.

Su Tangentopoli Pellegrino ci racconta tante cose, ma quella che mi ha colpito di più è la descrizione, senza tanti fronzoli, di quelli che furono i metodi dell’indagine. Un racconto che denuncia discreti abusi. Il primo è quello di usare gli arresti come sistema per fare confessare gli indiziati. Contro ogni spirito costituzionale e della legge. Il secondo è lo stratagemma di lasciar aperto all’infinito un fascicolo, in modo da aggiungere tutti i nuovi avvisi di garanzia allo stesso fascicolo, assicurandosi in questo modo che il Gip che doveva poi autorizzare gli arresti fosse sempre lo stesso (amico). Anche qui violando l’articolo 25 della Costituzione (quello sul giudice naturale al quale ciascuno ha diritto).

Il terzo abuso è quello degli avvisi di garanzia (e poi dei mandati di cattura) “a rate”, in modo da aggirare i termini della carcerazione preventiva. Per capirci, i Pm ti arrestavano con un’accusa, ma ne avevano in serbo altre due o tre che ti avrebbero contestato più avanti, quando stavano per scadere i limiti della custodia cautelare per la prima accusa. Il racconto di quegli anni tremendi, che rasero al suolo la prima repubblica, è dettagliatissimo e fa emergere senza ombra di dubbio lo strapotere dei magistrati, che avevano messo sotto scacco la politica, e la pusillanimità della politica, che fece harakiri.

La vicenda Andreotti anche è interessantissima. Perché leggendo Pellegrino si capisce che Andreotti era del tutto innocente. Non fu un processo o un’inchiesta, ma una partita a scacchi, che Andreotti accettò di giocare. Accettò perché non aveva scelta. O forse, più che una partita a scacchi, fu una caccia alla volpe, senza esclusione di colpi. Poi c’è il racconto degli anni 70. E qui io penso che la ricostruzione di Pellegrino sia annebbiata da una certa, seppur sempre ragionevole, dose di complottismo. Pellegrino esamina quel decennio con la lente della manovra politica, dei rimbalzi, degli interessi, delle manovre, delle influenze internazionali. Io penso che gli sfugga l’elemento essenziale: l’enorme pulsione di un’intera generazione alla lotta di massa, frontale, contro il sistema.

Un fenomeno sociale, politico, persino esistenziale che sconvolse il Palazzo, lo condizionò, cambiò i rapporti di forza tra i partiti, ma non si immischiò mai con “i Palazzi”, con le istituzioni, con i poteri. Marciò per conto suo. Per conto suo costruì cose straordinarie nel ‘68 nel ‘69, e poi, negli anni successivi, non seppe rispondere ai contrattacchi, e degenerò nella violenza e – in parte – nel terrorismo. E quando dico “in parte” non intendo “frange”. No, furono decine di migliaia i giovani, borghesi e proletari, nati tra il ‘45 e il ‘60, che furono toccati e rapiti dalla lotta armata.

Mi scuso se mi sono fatto travolgere dalle mie idee, ma questo libro ti costringe a tirale fuori le tute idee, perché è un libro eretico e provocatorio e sembra fatto apposta per creare reazioni. Per questo vale molto. Infine D’Alema. Ma qui usciamo dalla tragicità del libro. Il racconto del rapporto dell’avvocato leccese con il leader maximo è fantastico. Molto ironico e autoironico. Pieno dei vezzi di D’Alema, delle sue acutezze, del suo anticonformismo. Pellegrino lo tiene sempre presente. Con amore e con dispetto. In fondo tutto il libro è un dramma d’amore e di dispetto.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.