La guerra è una cosa da uomini, si sente dire spesso. Persino i tavoli negoziali, tradizionalmente, appaiono popolati esclusivamente da uomini, come abbiamo visto all’indomani dell’attacco in Ucraina. Eppure, accanto a quelle immagini che confermano il modello culturale maschile mainstream, abbiamo familiarizzato anche con un altro tipo di immagini: quelle delle donne ucraine che fanno la resistenza, che difendono il proprio paese e parlano di “Patria” imbracciando un fucile.

Nel bellissimo “La guerra non ha un volto di donna”, Svetlana Aleksievic scrive: “La guerra è una prova troppo personale. Personale ma altrettanto sconfinata quanto la vita stessa. Una volta, una donna (un’aviatrice) si è rifiutata di incontrarmi. Mi ha spiegato il perché per telefono: ‘Non posso….. non posso ricordare. In quei tre anni che è durata la mia guerra… non sono più stata una donna. Il mio organismo, quello di una donna giovane, era come narcotizzato. Non avevo più il ciclo. quasi nessun desiderio”. Esiste, dunque, nella storia una “guerra delle donne”? Secondo Julie Aubry – ufficiale della Riserva Selezionata dell’esercito nelle missioni di pace all’estero – sì.

Aubry, che studia i conflitti con un approccio sociologico di genere, spiega: “È interessante il fatto che si siano accolte le immagini delle combattenti ucraine come se fossero una novità assoluta”. Succede ogni volta, secondo la studiosa: “Ce ne dimentichiamo, le rimuoviamo, per poi ricordarle a ogni conflitto”. Ma in realtà le donne, storicamente, “sono molto presenti e attive nelle guerre: e questo al di là dell’immaginario che normalmente le vede raccontate come vittime o come, dall’altra parte, portatrici di pace”. Una lettura buonista, dunque, come lo è – apparentemente – il titolo dell’opera della scrittrice ucraina. “Un titolo che trae in inganno”, dice, perché in realtà Svetlana Aleksievic “fa parlare queste donne che hanno combattuto attivamente il nazismo nel ’41”. E dà voce, tra le altre, anche a una donna che era pilota, dunque, “con un ruolo veramente all’avanguardia per l’epoca, in un Paese che non vedeva di buon occhio la realtà delle donne combattenti”: una realtà di “reale emancipazione”, durante il conflitto mondiale.

Eppure la narrazione – anche storica – che ci viene fatta è sempre legata al maschile: “Al maschile”, prosegue Aubry, “perché la guerra è percepita sempre, nella narrazione come aggressiva, e in quanto tale ha una connotazione maschile”. Al contrario, la guerra ha molte più sfaccettature di quella che possiamo vedere, “il che non vuol dire dare senso alla violenza”, sottolinea Aubry, “ma far capire che in determinati contesti esiste anche la visione della donna che partecipa alla difesa di valori che si ritengono minacciati”. E questo concetto di resistenza alla minaccia, di partecipazione alla guerra, di liberazione, “di resistenza di fronte a un nemico inteso in senso ampio – non solo come nemico ma anche come aggressore di un mondo, di un’appartenenza, di un senso di valori che esso rappresenta –  “capovolge questa narrazione”.

Ecco che, dunque, la narrazione può anche diventare femminile, senza che necessariamente sia soltanto legata al “facciamo la pace”. Al contrario è un “noi prendiamo una posizione, combattiamo coscienti di un diverso modo di sentire, ma combattiamo”. Le donne ucraine che adesso vediamo, in realtà, continua Aubry, “hanno diversi tratti in comune con le donne Peshmerga, le combattenti curde che hanno una storia molto forte di combattimento che risale addirittura al 1700, eroine della guerra contro l’Isis, che combattono al fianco dei loro mariti”. Oppure le mujaheddin algerine “che hanno combattuto nella guerra di liberazione con i loro compagni contro i francesi dal ’58 al ’62”.

Basti pensare, poi, alle donne italiane e francesi della Resistenza che sono state, “non solo le staffette – mantenendo i contatti tra le diverse brigate e tra i partigiani e le loro famiglie – ma quelle che imbracciavano le armi e guidavano addirittura piccoli plotoni in azioni belliche. E le sovietiche nel 1941, contro l’avanzata dei nazisti”. Ancora: è interessante notare come le donne presenti negli eserciti possano ambire a fare carriera militare, soprattutto, “in quei paesi dove è più percepita la minaccia alla propria realtà, al proprio mondo e al suo sistema di valori”. Basti pensare, per esempio, “alla percezione che si ha della minaccia negli Stati Uniti, dove le donne sono molto rappresentate anche ad alti livelli nell’esercito. Oppure in Israele, dove addirittura quasi il 40% dell’esercito è composto da donne. Allo stesso modo, l’esercito regolare del Kurdistan le hanno ormai inglobate: qui sono diventate addirittura colonnelli e generali, con un ruolo molto importante”.

In realtà, di fronte a una situazione di minaccia al mondo che percepiscono come proprio – qualunque sia la loro realtà – le donne, dunque, “si difendono e non soltanto in ruoli di supporto, ma anche imbracciando le armi e combattendo direttamente il pericolo più che il nemico oppure supportando le guerre di liberazione, per esempio”. Dal racconto di Aubry viene fuori una nuova costruzione, più complessa, in cui la guerra delle donne meriterebbe un racconto diverso. Non più la “donna-pacificatrice” che “inorridisce di fronte alla brutalità maschile della guerra e quindi ne è vittima” ma “quella che, conoscendo ciò che avviene, vedendone tutti i lati dal suo specifico femminile – che non è un femminile di debolezza ma di consapevolezza – può portare un contributo a una costruzione della pace che è sempre un percorso attraverso il quale si realizza”. Un processo e non un traguardo.

Qual è il problema? “Il problema è che noi vediamo sempre e solo gli uomini ai tavoli della pace perché considerando la guerra maschile, ai negoziati ci vanno i ministri della Difesa e i militari”. In questo senso, la donna potrebbe essere “il trait d’union, la parte che conosce il conflitto e può portare alla costruzione della pace”. La difesa in funzione della costruzione: “Non in una posizione di debolezza, di passività, di lacrime. Non solo la donna che piange di fronte alla casa bombardata, ma la donna che reagisce”. E le donne che hanno scelto la vita militare? Sono solo donne che fanno l’uomo, che si sono assimilate? “No”, conclude Aubry, “e questo non vale soltanto per l’esercito italiano di cui ho un’esperienza diretta, ma anche per la componente femminile di tantissimi altri eserciti. Per esempio, ho conosciuto in Libano le ragazze militari malesi. Oppure, le ragazze della Corea del Sud: sono donne che hanno la grandissima forza di unire proprio questo aspetto di difesa con l’altro di essere costruttrici di un processo di pace all’interno di un’organizzazione che ha una connotazione violenta”. La guerra che ha un “volto di donna” è dunque quella dove si riesce a costruire quando intorno c’è solo distruzione.

 

 

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Ho scritto “Opus Gay", un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro in Fondazione Luigi Einaudi