Cinquanta anni. Tanti ne ha compiuti il 25 maggio la legge istitutiva del referendum abrogativo previsto dalla Costituzione del ‘48. Uno strumento che ha consentito a milioni di italiani di conquistare libertà e diritti che altrimenti avrebbero tardato anni o decenni prima di potersi affermare attraverso la sola via parlamentare, confermando in modo limpido l’analisi radicale per cui la società civile fosse molto più avanti della classe politica da cui era rappresentata. Con un sistema largamente consociativo-clientelare, come la partitocrazia, il referendum ha assunto la potenza dirompente di scompaginare il quadro politico in maniera trasversale nel corso della storia repubblicana. Basti pensare all’aborto, al divorzio, all’abolizione del sistema delle preferenze e all’introduzione del sistema in gran parte uninominale, al nucleare, all’abolizione del finanziamento pubblico e alla depenalizzazione dell’uso della cannabis. Eppure, in 50 anni, gli ostacoli all’esercizio di questa forma di partecipazione politica non sono mai stati abbattuti.

Fino a un certo punto della storia, i governi e il sistema dei partiti hanno cercato il modo di ostacolare il ricorso al referendum abrogativo: in una prima fase ricorrendo allo scioglimento anticipato delle Camere, poi invitando i cittadini “ad andare al mare” per spingerli all’astensione, o, ancora, dando attuazione legislativa al risultato referendario in direzione opposta a quanto espresso dagli elettori, come accaduto, per esempio, con la responsabilità civile dei magistrati e l’abolizione del finanziamento pubblico. Negli ultimi anni vi è poi la tendenza plebiscitaria a utilizzare il referendum confermativo: basti pensare a quello costituzionale del dicembre 2016 o al prossimo, sulla riduzione dei parlamentari. Si impongono riforme costituzionali a colpi di maggioranza per poi richiamare la volontà popolare come forma di legittimazione di un leader o di un ceto politico.

Assistiamo alla delegittimazione sistematica del referendum, che incrina la fiducia riposta dai cittadini in questo strumento, mentre alcune previsioni normative ostacolano sempre più il suo utilizzo. Come ha ricordato il professore Ceccanti sul Riformista, infatti, «la legge era stata costruita imponendo molti appesantimenti burocratici allo scopo di favorire le grandi reti organizzate, essenzialmente quelle legate al mondo cattolico e al Pci». O si hanno a disposizione centinaia di amministratori locali, condizione che riguarda solo i grandi partiti, o si hanno ingenti disponibilità finanziarie per pagare pubblici ufficiali che autentichino le firme. Sebbene i funzionari delle amministrazioni pubbliche possano essere messi a disposizione dei comitati promotori per agevolare la raccolta delle sottoscrizioni, infatti, l’assenza di vincoli, in combinazione l’esercizio di questo ruolo a titolo gratuito e fuori dall’orario di lavoro, fa sì che ciò si verifichi raramente.

Da 50 anni ci trasciniamo dietro gli stessi ostacoli, senza che vi sia mai stato un dibattito serio nelle aule parlamentari per il loro superamento. A riconoscere i difetti di questo sistema anche il Comitato dei diritti umani dell’Onu, che a seguito dell’iniziativa di Mario Staderini e Michele De Lucia, già Segretario e Tesoriere di Radicali Italiani, ha condannato l’Italia per la lesione dei diritti politici dei cittadini proprio in materia referendaria, chiedendo modifiche a una normativa che è irragionevole e discriminatoria. Il Governo e il Parlamento sono quindi obbligati a intervenire. Il Movimento Cinque stelle, su questo, ha nulla da dire?