Giacomo Matteotti. Un vecchio socialista non può che compiacersi delle iniziative organizzate in Italia per celebrare il centenario della nascita e l’anniversario del suo rapimento sul Lungotevere Arnaldo da Brescia da parte degli sgherri di Mussolini, che lo assassinarono in auto e lo seppellirono alla meglio alle porte di Roma. Tanti sono i riconoscimenti rivolti, le targhe inaugurate sui muri delle città, i pellegrinaggi a Fratta Polesine nella sua casa natale.

Lo scranno sacro

Certo, cento anni sono importanti, ma lo erano anche cinquanta, senza che allora vi fossero le onoranze di queste settimane. Lo scranno che occupava alla Camera, da dove pronunciò la requisitoria contro i brogli elettorali del regime, è sempre stato lì ma nessuno ha mai pensato di porvi una targa e di non assegnarlo più ad altri deputati (come fanno le grandi squadre quando ritirano la maglia di un campione del calcio). Non si può dire neppure che a riscoprire Matteotti sia stato l’incidente capitato allo scrittore Antonio Scurati, che è finito per fare del martirio del leader socialista l’esempio della violenza con cui il fascismo aveva conquistato e mantenuto il potere.

La memoria scomoda

Infatti sul caso di Giacomo Matteotti sono stati pubblicati molti libri pensati, scritti necessariamente prima del 25 aprile di quest’anno, quando l’assassinio del deputato socialista è stato raccontato su tutte le piazze d’Italia fino alla solenne rievocazione alla Camera, in cui è stato ricordato che Matteotti era socialista. Qui sta il punto che non è ancora stato chiarito. La memoria di Giacomo Matteotti – scomoda come quella di tutti i martiri – non può essere onorata soltanto condannando mille volte i suoi assassini. Ha diritto a un ben più importante riconoscimento: la sinistra deve ammettere che Matteotti e i suoi compagni avevano ragione. Due anni prima del rapimento e del brutale assassinio la corrente riformista – di Filippo Turati – era stata espulsa dal Psi su richiesta di Lenin, che aveva imposto questa pregiudiziale tra i 21 punti necessari per essere ammessi nella III Internazionale.

I contrasti interni

Nel Congresso di Livorno del 1921 la richiesta non era stata accolta dalla maggioranza massimalista. Tale rifiuto divenne uno dei motivi della scissione comunista. Tuttavia la precaria unità di Livorno non aveva attenuato i contrasti interni che paralizzavano il partito, proprio mentre stava dilagando lo squadrismo fascista e appariva sempre più urgente un’iniziativa del movimento operaio. Dopo altri tentativi di rinviare il problema, il Psi al congresso di Roma decise finalmente di obbedire a Mosca e decise l’espulsione dei riformisti, che fondarono il Partito socialista unitario (Psu) eleggendo segretario Giacomo Matteotti. È bene che si ricordi che quel Congresso si svolse nei primi giorni di ottobre del 1922; poche settimane prima della Marcia su Roma. In quel giorno il vertice del Psi “purificato” dall’infezione riformista si trovava a Mosca a esibire lo scalpo di Turati al Congresso della III Internazionale.