Perché ci crediamo? Perché ne abbiamo bisogno
La “Meritobugia”, come selezionare i più meritevoli in modo ingiusto e parziale: una truffa sofisticata che trasforma il privilegio in premio
L’illusione della meritocrazia ci convince che il successo sia possibile per tutti. La scelta dei “migliori” non è equa, ma si basa su un concetto soggettivo. Chi perde non è stato abbastanza bravo, invece chi eccelle se l’è guadagnato

Cominciamo con un piccolo test. Nulla di scientifico, solo sei affermazioni a cui devi rispondere sì o no, se sei d’accordo o meno.
1 – I risultati nella vita dipendono principalmente da impegno e capacità.
2 – La sfortuna incide solo marginalmente nell’insuccesso professionale.
3 – È possibile individuare il miglior candidato in modo oggettivo.
4 – Sono convinto che, in fondo, chi vuole davvero farcela, ce la fa.
5 – Credo che, se non si premia il merito, si rischia di abbassare il livello.
6 – Se qualcuno non ha avuto successo, probabilmente non si è impegnato abbastanza.
Se hai risposto “sì” a più di tre domande, non importa quali, abbiamo un problema. Se poi ti definisci anche “riformista”, il problema è doppio. Probabilmente sei vittima di una delle illusioni più tossiche della nostra epoca: la meritocrazia. O meglio: la meritobugia. L’ideologia che pretende di essere giusta perché seleziona i migliori, ma in realtà nasconde i privilegi dietro la maschera dell’oggettività. La meritocrazia, celebrata come il faro dell’equità, è un’illusione comoda: perpetua disuguaglianze, rafforza gerarchie, mistifica il potere. Non è un sistema neutrale che premia sforzo e talento, ma un costrutto ideologico viziato, che si regge su premesse false e produce conseguenze devastanti. Ma andiamo con ordine. La meritocrazia è un’ideologia.
Come cambia la meritocrazia…
Alla base, due assunti pericolosi: che sia possibile distinguere in modo scientifico chi “merita”, e che esistano criteri condivisi per farlo. Ma il merito non è oggettivo. Ed è proprio questo il punto: gli ideologi del merito si rifugiano negli esempi estremi, in cui la superiorità sembra evidente, per evitare la complessità. Pensiamo che il merito sia misurabile, oggettivo, impersonale. È una fantasia. Le ricerche internazionali mostrano come l’idea stessa di merito cambi radicalmente da cultura a cultura. Ciò che è considerato “meritevole” in un Paese (la lealtà in Giappone) può essere trascurato altrove (dove conta, magari, l’originalità). Peggio ancora: il merito non è falsificabile. E ciò che non può essere smentito, diceva Popper, non è scienza. Il merito non è scienza, è retorica. Non ha alcun valore predittivo dimostrabile. Chi ha successo è definito meritevole; chi fallisce, no. È un ragionamento circolare, inattaccabile, dogmatico. E allora si ricorre alla burocrazia: test, curriculum, assessment. Deleghe tecniche per decidere chi “merita”.
Ma o il merito è evidente, oppure bisogna operazionalizzarlo. Ed è lì che iniziano i problemi. Tra due venditori, chi merita la promozione? Quello che vende di più? O quello che costruisce relazioni durature e un modello sostenibile? Quello che rispetta l’etica? Che forma i colleghi? Che mantiene un buon clima nel team? E no, non rispondermi “tutte queste cose insieme”, perché allora devi assegnare pesi a ogni dimensione, decidere cosa includere e cosa escludere. Il potenziale? La storia personale? La salute? Il contesto? Le condizioni familiari di origine? Se ho instillato in te almeno un dubbio, è il momento della domanda più difficile: se la meritocrazia è una costruzione ideologica, perché ci crediamo? Perché ne abbiamo bisogno. Anche tu ne hai bisogno.
Meritocrazia truffa sofisticata
Perché conosci i tuoi sforzi, le ingiustizie subite, e vuoi credere che un giorno tutto questo verrà riconosciuto. La meritocrazia è diabolica proprio perché indefinita: ci proiettiamo dentro noi stessi. È una parola contenitore, abbastanza vaga da contenere ogni speranza. Funziona perché consola: ci fa credere che il successo sia alla portata di tutti, che la fatica venga premiata. Assomiglia più alla promessa del Paradiso che ad un metodo scientifico di gestione delle carriere. Ma la meritocrazia è anche una truffa sofisticata: trasforma il privilegio in premio. Se chi ha successo “se l’è meritato”, allora chi resta indietro “non era abbastanza bravo”. Un modo elegante per colpevolizzare chi perde. In teoria, premia i migliori. In pratica, conserva il potere. I manager scelgono chi gli somiglia, i docenti promuovono chi parla la loro lingua, le aziende investono su chi è già stato investito. Si chiama bias di omofilia. Selezioniamo chi ci rassicura, non chi rompe gli schemi. La meritocrazia, insomma, non amplia l’accesso: lo restringe. Non premia la diversità: la sterilizza. È una macchina conservatrice perfetta. La formula con cui la meritocrazia si presenta è seducente: successo = capacità × impegno.
I danni enormi dell’ideologia del merito
Ma è una menzogna. Perché ignora tutto il resto: il contesto, i privilegi, le reti, le condizioni di partenza, la fortuna. La formula corretta dovrebbe essere: successo = (capacità × impegno) × opportunità × contesto × alea. Anche se ti fai il mazzo, anche se sei bravissimo, se hai zero opportunità, il risultato sarà comunque zero. L’ideologia del merito ha fatto danni enormi. Ha condannato generazioni a colpevolizzarsi. A pensare che il problema fosse la corruzione o il sistema, pur di non ammettere l’esistenza di barriere invisibili. In più, la meritocrazia deresponsabilizza: sposta la colpa dal sistema all’individuo. Così anche chi è escluso finisce per crederci. Perché l’alternativa – che tutto sia arbitrario – è insostenibile. La meritocrazia è il nuovo oppio dei popoli. Non promette giustizia, ma una gara truccata che ti fa sentire parte di qualcosa. I Millennial lo hanno capito. In Germania come in Italia votano chi va contro la retorica meritocratica. Chi dice: “Non è colpa vostra se non avete avuto il successo che vi avevano promesso in cambio del vostro impegno”. Fateci caso.
Io non ho ottenuto nulla dei miei successi solo per impegno e capacità. Ho avuto anche culo, e soprattutto ho avuto delle opportunità. Me le sono trovate davanti, qualcuna me l’hanno regalata, qualcuna l’ho conquistata. Quanto tempo abbiamo passato a spiegare queste cose ai nostri figli? Ve lo dico io: per colpa dell’ideologia meritocratica, li abbiamo resi cinture nere di impegno, e molto scarsi nella gestione delle opportunità. Promettendogli che bastava l’impegno. E le opportunità non vengono da sole. Sono il frutto di relazioni, propensione al rischio, capacità di leggere il contesto… tutte cose che troverete nelle classifiche delle “Top soft skills”? Ve lo dico io: no! Dietro la retorica del merito si nasconde una cultura spietata della competizione. Chi perde è un fallito. Chi collabora è un ingenuo. Il burnout è la medaglia al valore. La torta è a somma zero: per uno che sale, un altro deve scendere. La meritocrazia non costruisce comunità. Le dissolve. E premia chi riesce ad adattarsi, non chi ha qualcosa di nuovo da offrire.
Gli Stati Uniti, patria della democrazia, si stanno trasformando da una delle comunità più aperte e belle del mondo a una delle più chiuse. Il paradosso più pericoloso? La meritocrazia giustifica le disuguaglianze. Se il successo è “meritato”, anche la povertà lo è. Non a caso, nel 2023, l’1% degli italiani deteneva il 25% della ricchezza nazionale. Il termine “meritocrazia” fu coniato da Michael Young come una distopia. Una società dominata da tecnocrati arroganti e insensibili, convinti che la loro posizione fosse frutto di superiorità e che decidevano chi meritasse e chi no. Oggi, quella distopia è diventata il nostro modello. E sì, Young era un riformista. Uno vero. Uno che non aveva paura di dire a Tony Blair che stava prendendo una cantonata storica con questa ossessione del merito.
Il merito è importante ma il futuro è una scommessa
Va bene, forse ti ho convinto (e comunque mi piace pensarlo, visto che ho quasi finito lo spazio per questo articolo, anche se avrei altre argomentazioni). La meritocrazia è una cazzata! Sei partito groupie del merito, ti sei scoperto conservatore e anche poco inclusivo. Ma adesso? Che facciamo? Superare la meritocrazia non significa rinunciare al talento. Significa accettare il paradosso: il merito è importante, ma non basta. Non è neutrale. Non è assoluto. Va bilanciato con altri criteri: giustizia sociale, redistribuzione, diversità, equità. Ma soprattutto: bisogna ripristinare il primato della politica nella selezione delle persone, soprattutto nel settore pubblico.
Ogni scelta è un atto politico. Chi promuovere, chi nominare, chi guidare: tutto implica una visione del mondo. Delegare ai test, agli algoritmi, alle griglie, è vigliaccheria. Nel privato possiamo accettare la logica del profitto. Ma nel pubblico, dove si costruisce il bene comune, rinunciare alla responsabilità della scelta è un tradimento. Il futuro è una scommessa. I “migliori” non esistono in termini assoluti, figuriamoci se si può stabilirlo prima o a priori. E se pensi a chi ha cambiato davvero la storia dell’umanità, difficilmente lo troverai uscito vincitore da un assessment center. Liberarci dalla meritobugia non è solo possibile. È urgente. È un atto di giustizia. Perché tu e io ci meritiamo di meglio.
© Riproduzione riservata