Ucraina, 24 febbraio 2022: “Putin è l’aggressore, ma…”; Israele, 7 ottobre 2023: “Condanniamo la carnecifina di Hamas, ma…”; Siria, 8 dicembre 2024: “Assad era un tiranno sanguinario, ma…”. “Ma” è la particella più usata negli ultimi tre anni per confondere il vero con il falso, suddividere equamente o, meglio, iniquamente le responsabilità, non separare il grano dal loglio.

Più usata, anzitutto, da quanti negli ultimi tre anni – associazioni del mondo religioso, sindacale e del volontariato, partiti della sinistra d’antan, neomovimento antimilitarista di Giuseppe Conte – se ne sono serviti per alzare la fiaccola della pace oscurando la stella della libertà. Eppure perfino per Kant, autore di uno dei più celebrati saggi sulla pace, il valore supremo che una ben ordinata convivenza di individui dovrebbe realizzare non è la pace, che o è giusta o non è, ma la libertà. Infatti, “la pace non può essere il cimitero della libertà”.

Niente di nuovo sotto il sole. L’alba del nuovo movimento pacifista in Italia vide simbolicamente la luce il 24 settembre 1961. In quel giorno si svolse la prima “Marcia per pace e la fratellanza fra i popoli” da Perugia ad Assisi. Dalle lotte per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, poi introdotta per legge nel 1972, fino al sostegno dei movimenti no global nel passaggio del secolo, la sua bussola è sempre stata la stessa: “tutte le guerre sono l’altra faccia del neoliberismo” e “la minaccia atomica incombe sul pianeta”. Già, ma chi è oggi che minaccia una catastrofe nucleare? Il suo nome non è stato mai pronunciato nelle manifestazioni per “fermare la guerra”. D’altra parte, si può credere sul serio che, cedendo al ricatto di un autocrate, costui diventerebbe più indulgente? Accadrebbe esattamente il contrario, e i paesi che hanno conosciuto il tallone dell’Urss lo sanno bene.

Vim vi repellere licet”, è lecito respingere la violenza con la violenza, è un principio presente già nel Digesto di Giustiniano (533). È accettato da ogni ordinamento giuridico e da ogni dottrina morale. Dal canto suo, un campione del pensiero laico come Norberto Bobbio, anche negli anni in cui denunciava con angoscia la corsa agli armamenti nucleari, ricordava che “pacifismo non è soltanto invocare la pace, pregare per la pace, dare testimonianza di volere la pace […]. [Ma] non è forse vero che l’impotenza dell’uomo mite finisce per favorire il prepotente? In una situazione in cui, per osservare il principio della nonviolenza tutti gli stati fossero disposti a gettare le armi, l’unico che si rifiutasse di farlo diventerebbe il padrone del mondo” (“Il problema della guerra e le vie della pace”, il Mulino 1997).

La concezione della nonviolenza di Gandhi, a cui si riferiva il filosofo torinese, ha ricevuto nel corso del tempo interpretazioni disparate. Fu accolta con entusiasmo – oltre che da Capitini – da Giorgio La Pira. Fu invece liquidata come utopica da Jean Paul Sartre e Franz Fanon, e perfino come reazionaria da Herbert Marcuse. Ma di quale nonviolenza stiamo parlando? La domanda è cruciale. Il Mahatma ha sempre distinto la non violenza come convinzione dalla nonviolenza come scelta tattica.

La prima è quella del forte, che si basa sulla ripulsa morale della violenza e che richiede audacia, abnegazione, disciplina e una fede profonda nella bontà della propria causa. La seconda è quella del debole – o resistenza passiva -, a cui ricorre chi non si sente abbastanza risoluto da impugnare le armi. Quest’ultima, a sua volta, non va confusa con la nonviolenza del codardo, frutto di pura vigliaccheria o di meschini interessi egoistici. Nonostante – scrive nella sua Autobiografia – “la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione” (AliRibelli Edizioni, 2019).

In tal senso, la posizione di Gandhi non può essere identificata con il pacifismo assoluto di Lev Tolstoj, che contemplava perfino “il rifiuto di uccidere i propri simili”. Del resto, gli faceva eco Hannah Arendt, se la pratica nonviolenta di Gandhi “si fosse scontrata con la Russia di Stalin, la Germania di Hitler, il Giappone anteguerra, invece che con l’impero britannico, il suo esito sarebbe stato non la decolonizzazione, ma un massacro” (“Sulla violenza”, 1970). Quando sono in gioco i valori sommi della democrazia e della libertà non dovrebbe esserci spazio per posizioni terziste. Bisogna scegliere da che parte stare: o di qua o di là. Insomma, fuori dai denti: il pacifismo radicale, sia quello etico-religioso sia quello elettoralistico, è mosso anzitutto da amore per la pace, oppure da odio per l’Occidente?

Eppure la stessa comunità dei credenti non è mai stata un monolite. Il pastore protestante Dietrich Bonhoeffer sciolse il dilemma tra resistenza e resa al nazismo scegliendo la prima, e pagandone il prezzo nel lager di Flossenburg. Nell’ottobre del 1939, Emmanuel Mounier pubblicò sulla rivista Esprit un saggio intitolato “Les Chrétiens devant le problème de la paix”. Con una palese allusione al “tradimento di Monaco” (settembre 1938), il filosofo cattolico scrive: “Questo pacifismo, nel settembre del 1938 non aveva a cuore la giustizia dei Sudeti, né quella dei Cechi, né quella dei Trattati, né quella delle loro vittime, né l’ingiustizia della guerra, ma aveva una sola ossessione: che non si interrompessero i suoi sogni di pensionato. […] La pace è compromessa non solo dai guerrafondai ma anche dagli imbelli […]. È forse questo il comportamento che si addice ai fedeli di una religione la cui pietra angolare è costituita da un Dio fattosi uomo sulla terra?”.

Sono parole nobili, espressione di un “realismo cristiano” sideralmente distante dal realismo politico esibito da taluni maître à penser domestici. Per uno dei tanti paradossi di cui è piena la storia repubblicana, è toccato a una donna postfascista sottolineare che “sbaglia chi crede sia possibile barattare la libertà dell’Ucraina con la nostra tranquillità” (Giorgia Meloni, discorso d’insediamento alle Camere, 25 ottobre 2022).