La pandemia ci ha ricordato che come individui siamo fragili, e vulnerabili sono la società, le strutture e le sovrastrutture che abbiamo costruito per difendere la nostra vita e i nostri privilegi. Se la pandemia riguarda tutti, allora la risposta migliore è concertata e globale. È questo il cuore pulsante dell’e-book che monsignor Vincenzo Paglia ha dedicato all’emergenza virus, “Pandemia e Fraternità. La forza dei legami umani riapre il futuro” (Edizioni Piemme). Ma nella riflessione del presidente della Pontificia Accademia per la Vita, fraternità e solidarietà non sono solo valori cristiani: sono le fondamenta sulle quali poggia la sopravvivenza dell’umanità. Nella prima parte l’Autore si concentra sui temi del “noi” e del “prenderci cura” gli uni degli altri. E introduce, sulla scia di papa Francesco, qualche commento su alcuni salmi che ci aiutano ad andare verso quell’Oltre, che per noi credenti si chiama Dio e per chi non crede Mistero, che accoglie e supera l’abisso nel quale oggi tutti siamo caduti. Se la “pandemia” riguarda tutti; se la risposta migliore è concertata e globale, se la solidarietà nei comportamenti ci rende responsabili gli uni degli altri, abbiamo un’occasione per delineare già da ora alcune linee portanti del futuro che vogliamo costruire. Non è vero, infatti, che tutto tornerà come prima, dopo questa parentesi da incubo. E il domani sarà migliore? Non è scontato. In chiusura, a sintetizzare il percorso compiuto nell’e-book, viene riportato il documento «Pandemia e fraternità universale», presentato a Papa Francesco il 30 marzo 2020, che la Pontificia Accademia per la Vita ha elaborato per contribuire alla riflessione condotta nel mondo della ricerca scientifica e umanistica. A partire da temi e spunti contenuti nel volume in uscita, ecco alcune considerazioni che il monsignore ha voluto affidare alle nostre pagine.

Non è il Coronavirus lo «spettro» che si agita per il mondo. Ne abbiamo conosciuto gli aspetti inquietanti e di «superficie»: capacità di contagio, aggressività virale. Ne abbiamo assaggiato la tremenda forza nel condizionare la vita delle nostre società, imponendoci ritmi ed abitudini impensabili fino a due mesi fa. Sessanta giorni hanno cambiato il ritmo del nostro mondo, l’aspetto delle città e la qualità della relazioni interpersonali. Il Coronavirus ci ha fatto scoprire che siamo tutti sulla stessa «barca», come ha detto Papa Francesco, e che è necessario che tutti remiamo dalla stessa parte. Ma per far questo siamo obbligati a riflettere su «quale» società vogliamo costruire. E, il remare assieme nella stessa direzione, è già l’inizio della società di domani. Ma è quel che sta accadendo? Il domani o inizia oggi o neppure verrà. Se non riusciamo già da ora a superare le innumerevoli spinte divisive tra «noi» sarà difficile intravedere il futuro.

In questi sessanta giorni il nostro futuro è già iniziato. Ora abbiamo bisogno di visioni lunghe, non di sguardi corti. Se ci rifugiamo nella «lettera» delle normative non riusciremo a far entrare davvero quel futuro che comunque sia è già cominciato. In una sua poesia, Karol Wojtyla scriveva: «l’uomo soffre soprattutto per mancanza di visione». Aveva ragione. Direi che la stessa pandemia è una delle conseguenze amare dell’assenza di una visione. Ci siamo fermati al presente degli interessi individuali o comunque particolari pensando che fosse l’oggi da sfruttare in vista del proprio benessere. Ma l’esclusivo interesse individuale – è bene ormai riconoscerlo apertamente – ci è sfuggito di mano. Nato come sacrosanta affermazione del valore inviolabile della persona e dell’integrità dei suoi diritti, l’individualismo ha finito per erodere quei solidali rapporti umani che rendono buona la vita della società. arricchendo l’umanità dei singoli e scongiurando l’abbandono dei più deboli. È chiaro ormai che la somma degli interessi individuali non solo non produce una società più solidale, ma non porta neppure, alla fine, vantaggio alla stessa vita individuale.

In realtà l’erosione dei rapporti – Bauman ci aveva avvertiti dei pericoli di una “società liquida” – ha finito per rendere liquidi ed evanescenti anche i doveri corrispondenti alla responsabilità delle relazioni che edificano la comunità. Ma la qualità della convivenza è un bene indivisibile: per essere goduto da tutti deve essere responsabilmente condiviso. In questi ultimi tempi sia in Italia che in Europa e in Occidente, siamo stati incalzati dal tema politico della necessità di «immunizzare» il nostro benessere: non solo da ogni minaccia e aggressione, come è giusto, ma anche da ogni possibile forma di solidarietà e di condivisione. L’ossessione immunitaria assume connotati quasi deliranti, giustamente stigmatizzati come derive anti-umanistiche di una civiltà che arriva a ripudiare i fondamenti stessi della sua cultura civile.

La diffusione del virus è una grande lezione: l’umanità si «difende» aprendosi alla vulnerabilità dell’altro. Tutti noi ci «difendiamo» proteggendo l’altro in pericolo di vita. Purtroppo stiamo rischiando di mettere ai margini della società le persone più deboli, gli anziani, i bambini, i poveri. Insomma, l’individualismo ha eroso man mano il rapporto tra le generazioni, dividendole le une dalle altre. E ovviamente le più deboli sono state penalizzate: anziani, bambini e poveri compresi gli stranieri. Volatilizzando ogni dimensione solidale nel tessuto della società. Quel che è accaduto nelle Rsa è un grido che sale al cielo. Ma non è avvenuto per caso. È stata l’esplosione di una contraddizione già presente. Analogo il discorso sui bambini e i minori. Abbiamo costruito un mondo che per loro è molto problematico. In Italia i giovani guardano il loro futuro con grande preoccupazione.

E se il discorso si allarga al pianeta è evidente l’irresponsabilità degli adulti per la devastazione dell’ambiente. Ci sono poi gli scartati di sempre, i poveri e gli «stranieri», gli «immigrati». È opportuno, anzi doverosa la regolarizzazione dei lavoratori e lavoratrici per rendere più coeso il tessuto della società. L’ultima indagine Swg di queste ore per il Cnel rileva che la maggioranza degli intervistati vede con favore la regolarizzazione dei lavoratori stagionali non italiani in agricoltura e di colf e badanti nel settore domestico. A quanto pare l’Italia è più avanti delle polemiche politiche. «L’uomo della strada» vede e comprende aspetti di assoluto buon senso. Che però ci danno una marcia in più di umanità.

Lo «spettro» del Coronavirus si batte sul terreno medico; i suoi effetti sociali si sconfiggono con una disegno di società per il domani. È un messaggio profondamente diverso rispetto a una visione «economica» della vita e delle relazioni. La visione economica privilegia la «cultura dello scarto»: qualcosa non serve, allora si butta. Vale per gli oggetti e viene applicata alle persone deboli e sole: anziani, malati, carcerati, immigrati; non ci servono, dunque si possono «eliminare» non curandoli, lasciandoli da parte, nei loro «ghetti» per evitare di vederli.

Dunque il grande tema di oggi è la società che vogliamo costruire, nella quale entri una economia attenta allo sviluppo dell’uomo, così come una salute che sia a misura di tutti. Siamo chiamati a ripensare il modello di sviluppo con l’intento di non escludere nessuno. E per questo debbono ripartire senza dimenticare i poveri, senza essere segnate da una dimensione solidaristica radicale. A mio avviso è un tema particolarmente urgente da mettere sul tavolo del futuro. Ne è della «salute» della stessa democrazia. Le tentazioni sovraniste, le esperienze autoritarie, sono un campanello di allarme per la salute del corpo e degli animi. Insomma, dobbiamo riaprire la frontiera della solidarietà – o della fraternità – per farla diventare uno stile di civiltà sin da ora. È nella forza dei legami umani che si riapre oggi il futuro. Per noi deve essere un punto d’onore.