Zingaretti ne è fuori, fortunatamente. Ma non credo possa dire lo stesso per l’intero Pd. L’impressione, anzi, è che il virus lo abbia contaminato in quanto “intellettuale collettivo”, come si diceva una volta, o, più banalmente, come organizzazione pensante. Cosa ne è del suo senso di orientamento? In quale direzione sta andando oggi il Partito democratico? Più in generale: quale lezione ha tratto dai fatti drammatici di questi giorni? Qual è la sua idea di Stato? Punta sul centralismo o sul regionalismo?

Tutte queste domande ci portano fatalmente proprio in Campania, tra le braccia di De Luca, il leader su cui convergono tutti gli opposti e che meglio maneggia contraddizioni e stati di emergenza. Non a caso è qui che il Pd, dopo essersi autocelebrato per aver trovato nell’elezione di Sandro Ruotolo al Senato una via alternativa al deluchismo, ha precipitosamente ingranato la marcia indietro. Tra l’altro, dando vita a una seconda svolta politica dopo l’ingiustificabile alleanza con de Magistris, l’avversario di un tempo.  Ma andiamo avanti.

Come tutti sanno, il Pd napoletano era partito per sacrificare De Luca sull’altare di un’alleanza più ampia, che oltre al sindaco di Napoli comprendesse anche i Cinquestelle. Si era anche armato per affrontare il suo governatore in campo aperto, ciò quello elettorale. E si si era infine spinto fino a giudicare inefficaci, perché anticostituzionali, i suoi i primi provvedimenti emergenziali. Ma ha poi cambiato idea quando ha annusato l’aria che tirava, quando ha meglio valutato il consenso crescente per il governatore . È a questo punto che ha cominciato a portarlo a modello. “De Luca ha avuto la capacità di decidere in una fase emergenziale, e sicuramente ha rafforzato la sua proposta politica”, ha detto ieri Marco Sarracino, il segretario napoletano del Pd. Traduco: ricandidatura assicurata, con o senza Cinquestelle, e senza più condizioni.

Ma la svolta del Pd non è solo tattica. O opportunistica. È anche culturale, dunque più profonda, se è vero che intellettuali di area parlano ormai di De Luca come una volta si parlava di Bassolino. Lo indicano come un leader capace di atti non solo politici, ma addirittura “antropologici”. Se non antropogenici. Tali, insomma, da rimodellare, grazie ai provvedimenti restrittivi, “il carattere stesso dei napoletani”, descritti per l’occasione e per meglio sottolineare la portata storica dell’evento, come ispirati da “un atavico rifiuto delle regole, dello Stato e delle istituzioni” e dunque “inclini all’anarchia e a una mentalità tardo-borbonica”.

Tuttavia, è di pochi giorni fa il solenne impegno di Andrea Orlando, segretario nazionale del partito, a ridimensionare quanto prima il ruolo delle Regioni e dei governatori. A partire, manco a dirlo, dalle competenze in campo sanitario. Il che ovviamente proietta l’intera vicenda, non solo quella campana, in tutta un’altra dimensione. Una dimensione in cui non prevalgono più le luci ma le ombre. Tra l’altro, Orlando è il vice di Zingaretti, il quale è anche governatore del Lazio. E allora la questione è questa: come è possibile, da un lato, esaltare il regionalismo, apprezzarne gli effetti e individuarlo come decisivo per la tenuta del Paese, e dall’altro puntare l’indice contro le Regioni e inevitabilmente additarle come concause della tragedia in atto? Difficile venirne a capo. Si ammetterà.