In Italia, il calcio è molto più di uno sport: è un fenomeno di massa, un collante sociale, un’industria multimiliardaria. Nel cuore del sistema economico calcistico si trovano i diritti televisivi, vero e proprio motore finanziario dei club professionistici. Le Pay TV, in particolare, rappresentano da oltre vent’anni i principali investitori del settore, acquistando a cifre astronomiche l’esclusiva della trasmissione di partite che catalizzano l’attenzione di milioni di tifosi. Eppure, in Italia, accade qualcosa di unico in Europa: in nome della sicurezza pubblica, lo Stato può imporre la trasmissione gratuita di questi eventi, senza riconoscere alcun indennizzo agli operatori che hanno legalmente acquistato quei diritti.

Tutto inizia nei primi anni Duemila. In un’epoca segnata da accesi scontri tra tifoserie e gravi episodi di violenza negli stadi, alcune prefetture italiane iniziano a sperimentare un meccanismo volto a contenere i rischi di ordine pubblico: vietare la trasferta ai tifosi ospiti e, contestualmente, proiettare la partita su maxi schermi in piazza, permettendone la visione gratuita. Tutto questo è accaduto di nuovo in questi giorni a Napoli, a piazza del Plebiscito, piazza Mercato, piazza Giovanni Paolo II a Scampia e in 53 comuni della provincia. La logica apparente è disarmante nella sua semplicità: se non posso andare in trasferta, mi accontento della visione collettiva nella mia città. Una forma di “calcio di prossimità”, presentata come alternativa popolare e sicura, pensata per evitare lo spostamento dei gruppi organizzati e le conseguenti tensioni.

Nella realtà, però, questa strategia ha prodotto effetti molto diversi. Di fronte ai maxi schermi si sono ritrovati anziani, famiglie con bambini, giovani non abbonati alle piattaforme televisive a pagamento. Le frange più radicali delle tifoserie: quelle per le quali l’appartenenza e la trasferta sono elementi identitari fondamentali, hanno continuato a seguire la propria squadra, talvolta eludendo i divieti, spesso entrando in contatto con le forze dell’ordine. Ciò che rende questo fenomeno singolare è la totale assenza di compensazione verso chi quei diritti li ha acquistati. Le Pay TV, da Stream a Tele+, da Sky a Dazn, investono centinaia di milioni di euro per assicurarsi l’esclusiva di trasmissione. Questi investimenti sono coperti dagli abbonamenti degli utenti, ma quando arriva l’ordinanza del prefetto che impone la visione gratuita su maxi schermo, quell’investimento viene – di fatto – espropriato.

Un esproprio “bianco”, che non passa per i canali tradizionali previsti dalla legge (come l’esproprio per pubblica utilità), ma che ne riproduce gli effetti economici. Un danno patrimoniale diretto per l’operatore televisivo, senza che lo Stato riconosca alcun rimborso o indennizzo. La prassi si regge su un uso estensivo del potere d’ordinanza delle prefetture, basato su esigenze di ordine pubblico. Tuttavia, non esiste una norma organica che regoli queste situazioni. Questo vuoto normativo non solo crea incertezza giuridica, ma mina alla base la credibilità dell’intero sistema dei diritti sportivi. Quale operatore vorrà continuare a investire cifre ingenti in un mercato in cui le regole possono essere sovvertite da un provvedimento locale, improvviso e non compensato? Anche sul piano della sicurezza pubblica, i risultati sono discutibili. L’idea che la visione pubblica su maxi schermo possa dissuadere i tifosi violenti dalla trasferta si è dimostrata inadeguata. Chi appartiene a gruppi organizzati non cerca solo la visione della partita, ma vive il rito della trasferta come elemento identitario.

L’alternativa “tranquilla” del maxischermo attrae piuttosto tifosi occasionali, famiglie, pensionati – esattamente il pubblico che le Pay TV faticano a raggiungere per motivi economici o tecnologici. L’unico vero effetto è che una quota di popolazione, che in condizioni normali non accederebbe alla partita a pagamento, la ottiene gratuitamente, con evidente svantaggio competitivo per le emittenti. Senza, peraltro, ridurre la componente a rischio. Nel contesto internazionale, l’Italia si distingue per questa gestione “creativa” dei diritti televisivi. In altri paesi, partite considerate di interesse nazionale sono trasmesse in chiaro in base a liste predefinite, come nel Regno Unito o in Germania. Ma si tratta di partite ben definite – tipicamente della Nazionale – e il principio è noto in anticipo. Gli operatori ne tengono conto nella fase di acquisizione dei diritti. In Italia, invece, si impone retroattivamente la trasmissione gratuita, senza preavviso, senza negoziazione, senza indennizzo. Un meccanismo che confligge con i principi basilari del diritto commerciale e con le libertà economiche garantite a livello europeo. Cosa fare? Il primo passo è riconoscere l’anomalia. Il problema non è la tutela dell’ordine pubblico, ma il modo in cui questa viene perseguita.

È legittimo che lo Stato intervenga per prevenire disordini. Ma deve farlo rispettando i diritti dei soggetti economici coinvolti, stabilendo regole certe – L’equilibrio tra interesse pubblico e diritti economici è fragile, ma necessario. Il calcio è un bene collettivo, ma anche un mercato regolato, da cui dipendono posti di lavoro, investimenti, innovazione. Minare la fiducia degli operatori significa colpire la sostenibilità del sistema.
Un Paese maturo deve saper coniugare sicurezza e legalità, passione popolare e certezza del diritto. L’Italia ha bisogno di uscire dalla logica dell’eccezione permanente e costruire una strategia coerente, che valorizzi il calcio come patrimonio culturale, ma anche come industria moderna, fatta di regole, rispetto e visione a lungo termine.