“La gente pensa che la tragedia è solo quando uno muore, non si capisce che è anche vivere con una disabilità così importante come la mia”. Simona Parisi, 50 anni, napoletana, 32 anni fa è stata vittima di un incidente stradale. Da allora è tetraplegica, una lesione midollare all’altezza del collo la costringe all’immobilità dal collo in giù. Racconta al Riformista la sua storia e le incredibili difficoltà che incontra tutti i giorni. Problemi insormontabili che potrebbe non incontrare mai, nonostante tutto, se ognuno rispettasse le regole. “Faccio un appello con tutto il cuore e la rabbia che ho: non occupate gli scivoli, non lasciate la cacca dei vostri cani sui marciapiedi. Ve lo chiedo gentilmente: smettete di fare gli incivili“.

Quattro giorni dopo l’incidente avrebbe compiuto 18 anni, nell’armadio c’era già appeso il suo bellissimo abito per la festa. “E lì è rimasto – racconta Simona – sognavo tante cose all’epoca, e avrei voluto imparare anche a guidare. Poi rimasi coinvolta in un brutto incidente mentre ero seduta in auto. Penso che nel bene e nel male sto qua: nel male perché il corpo purtroppo è diventato come una gabbia non potendo muovere braccia, gambe, non respiro bene, ho problemi intestinali e vescicali; nel bene perché prima davo tutto per scontato. Poi ho visto quanto i miei genitori mi amassero, mi hanno dato di tutto e di più, tutto quello che non avrei mai nemmeno potuto immaginare”.

Simona racconta come un incidente in pochi attimi possa completamente stravolgere la vita di un’intera famiglia. Gli anni trascorsi in ospedale lontano da casa, con i suoi genitori che hanno dovuto imparare tutto d’accapo, la lontananza con le sorelle. Ma non si è mai arresa: si è laureata in economia, ha preso le qualifiche di commercialista e così è riuscita ad entrare nel mondo del lavoro. “Non saprei dire quanto questo è un bene – spiega – al di là dei problemi per gli spostamenti, ti viene sospesa la pensione perché guadagni. Resta l’accompagnamento. Per i sacrifici che si fanno per andare a lavoro nelle mie condizioni e quanto mi costa non lo so quanto conviene lavorare. Io lo faccio per il rispetto e l’amore che ho per la vita”.

Si organizza giorno dopo giorno come può, per gravare il meno possibile sulla sua famiglia: ha bisogno di assistenza per fare qualsiasi cosa e a questo ci pensa di tasca sua. Non riesce a smettere di arrabbiarsi di fronte alle ingiustizie che incontra tutti i giorni, dalle più piccole alle più grandi. “Dal momento in cui esci dall’ospedale sei abbandonato a te stesso – continua – nessuno aiuta te e la tua famiglia. Ad esempio, in Campania non abbiamo una unità spinale, quella più vicina è nel Lazio. Ogni volta che devo andare a fare un controllo devo arrivare a Montecatone, Imola. E tutto questo comporta delle spese: il viaggio in auto perché non è collegato con i mezzi pubblici, l’albergo per i familiari, oltre al fatto che devo pagare un’assistente perché mio padre non c’è più e mia mamma è anziana e non ce la fa. Dobbiamo andare in 4 a Montecatone, uno sforzo enorme. Io vorrei solo avere un ospedale vicino da raggiungere più agevolmente”.

La cosa che più le fa rabbia è la mancanza di rispetto totale da parte delle persone, sue concittadine, nei confronti dei disabili. A partire dal posteggio dell’auto a lei riservato: basta allontanarsi per 10 minuti per trovarlo puntualmente occupato da qualcuno che non rispetta il contrassegno. “Per me che ho difficoltà negli spostamenti e per la mia famiglia è un problema enorme – racconta – Quando troviamo il nostro posto occupato iniziamo a cercare il proprietario in giro. E quando lo troviamo di solito si arrabbia pure! ‘Mammamia quante storie, ho parcheggiato qui giusto 5 minuti per andare a prendere il caffè’, dicono. I primi anni questa cosa mi faceva arrabbiare tantissimo. Allora scrivevo biglietti che lasciavo sui parabrezza con scritto ‘sei un incivile’. Poi il biglietto lo trovavo a terra. La macchina era sempre la stessa allora a un certo punto ho perso la pazienza e ho chiesto a una mia assistente di scrivere direttamente sul vetro dell’auto con il rossetto ‘sei un incivile’. Questa persona non mi ha parlato per anni perché, per la fretta, si trovò a dover andare a lavoro con la macchina con quella scritta e lei si vergognò molto. Disse che era stata solo un minuto e che io avevo esagerato. Ma se tutti mettono la macchina un minuto il posto è occupato tutta la giornata e inspiegabilmente nessuno se ne rende conto”.

Non esagera Simona nel raccontare l’inciviltà che incontra tutti i giorni semplicemente uscendo di casa per andare a fare una passeggiata. Quando Simona ha avuto l’incidente, la carrozzina non entrava nemmeno nell’ascensore, che era anche vecchia e spesso suo padre era costretto a portarla a casa a spalla per 7 piani. “Poi grazie alla solidarietà degli altri condomini abbiamo allargato il vano dell’ascensore e istallato un diverso ascensore”, racconta. Ma la situazione è difficile già dall’uscita dal condominio, da quel gradino che separa il portone dalla strada. “È da 32 anni che chiedo lo scivolo ma non posso metterlo per problemi burocratici”. La accompagniamo per raggiungere il primo nucleo di negozi vicino casa sua, il primo luogo dove può svagarsi un po’ e guardare due negozi, corso Garibaldi. Un percorso che chiunque percorre in 10 minuti, ma che per Simona è una corsa a ostacoli faticosissima che dura un’ora. Su 12 scivoli solo 2 sono liberi, il fondo stradale è pieno di buche e parti scoscese, le ruote della sua carrozzina si incastrano di continuo nei sanpietrini e a questo si aggiunge la difficoltà di dover fare slalom tra cacche di cane e spazzatura lasciata in strada.

Simona è costretta ad attaccarsi alla carrozzina con una cintura per non rischiare di cadere con la faccia a terra. Impensabile poter uscire da sola: per tutti gli ostacoli che incontra ha bisogno di due persone che in alcuni punti sono costrette a sollevare la carrozzina e sostenere il suo peso. E a un certo punto devono darsi il cambio perché troppo faticoso. Bastano 5 minuti di percorso con Simona per capire che quelle piccole cose, gesti di civiltà, a cui un normodotato non fa attenzione (come lasciare liberi gli scivoli), per una persona costretta su una sedia a rotelle sono un problema enorme. È come toglierle la libertà e condannarla a stare immobile a casa. E a deciderlo sono gli altri, non la sciagura subita. Perché senza barriere architettoniche, senza incivili che non rispettano le regole o solo il buon senso, Simona potrebbe andare a fare tante passeggiate. E come lei tanti altri con le sue stesse difficoltà o anche semplicemente chi porta figli nel passeggino. Figurarsi poi riuscire a prendere dei mezzi pubblici. Eppure Simona sa che una vita diversa per lei sarebbe possibile. L’ha sperimentata ad esempio a Verona quando è arrivata da sola in stazione con il treno e ha preso un autobus dotato di pedana con l’autista che l’ha aiutata nelle manovre “come se fosse una cosa normale”, dice.

Ma le difficoltà per Simona non finiscono qui. L’assistenza per esempio, che per lei è fondamentale H24, è tutta a carico suo. “Ho 3 ore di assistenza a settimana dell’Asl, tutto il resto è delegato a me e alla mia famiglia. E se succede qualcosa per cui l’assistente non viene è mia mamma che a 75 anni si occupa di me. E trovare persone che possano fare assistenza è davvero difficile, spesso non hanno la preparazione o sono demotivate da pagamenti troppo bassi che ricevono dalle agenzie per cui lavorano”. “Mi chiedo: com’è possibile che tutti noi cittadini paghiamo le tasse da quando nasciamo a quando moriamo, se non paghiamo tutto lo Stato ci viene a bussare alla porta e ci chiede pure le sanzioni, perché quando serve a me lo Stato non c’è? Ho una rabbia tremenda per questo”. Ma i paradossi per Simona non finiscono qui: “All’Asl devo andare a fare delle visite periodicamente in stanze che sono sempre ai piani alti. L’ascensore è troppo piccola e la mia carrozzina non c’entra. Per far salire le persone in carrozzina mettono una sedia in ascensore ma un’ altra persona non c’entra. Io che non mi reggo non so come fare. E quindi io all’Asl non ci posso andare salvo che le visite non si svolgano negli edifici adiacenti. Questo è successo anche per il richiamo del vaccino anti covid: abbiamo dovuto smuovere mari e monti per averlo a domicilio. Alla fine ero per tutti ‘quella che fa sempre storie’. Tutto questo solo per rivendicare un diritto. Poi ho sofferto per una piaga e alla fine ho dovuto curarla privatamente avendo portato a termine la procedura per il servizio infermieristico. E ancora, ho avuto una carrozzina nuova con uno schienale rigido e un cuscino particolare che non riesco a usare. Ma poco importa loro hanno fatto il loro”.

Una cosa bella però Simona l’ha incontrata in Campania e ci tiene a raccontarla. “Non esistono spiagge per disabili in Italia, o meglio sono pochissime – continua Simona – Però a Miseno c’è una spiaggia attrezzata con lettini e assistenti che ti accompagnano in acqua senza relegare il compito ai familiari. Passi lì 3 ore e ti sembra di stare in paradiso: non devi chiedere, vengono loro da te”. C’è un però, come Simona è ormai abituata a sapere: “Posso andare a mare solo lì. Questa spiaggia viene concessa all’associazione solo a luglio e agosto perché è una scuola con davanti un fazzoletto di spiaggia. Mentre a destra e a sinistra è stracolmo di lettini e ombrelloni, noi abbiamo solo quel piccolo fazzoletto dove ci sono al massimo 40 posti. E quindi dobbiamo fare i turni: 15 giorni a testa. Siamo tanti disabili e la spiaggia è piccola. Questo non mi sembra giusto”.

“Trenta anni fa, insieme a mio padre scrissi una lettera alle istituzioni – conclude amara – sono venuti a casa mia tutti i delegati, dalla presidenza del Consiglio in poi, abbiamo fatto delle belle chiacchiere, abbiamo denunciato tutta la situazione, sono passati 30 anni e non è cambiato nulla”. Simona è sfiduciata anche se non ha perso il piglio di rivendicare ogni suo singolo diritto. Ma può essere che debba sudare così tanto per qualcosa che le è normalmente dovuto come andare a fare una passeggiata?

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.