Nasce a Piscinola, in una famiglia dove una donna sola cerca di sopravvivere con tre figli piccoli. Lì le istituzioni sono quasi del tutto assenti: Ramon inizia a commettere rapine, poi a spacciare, alla fine viene rinchiuso in un istituto minorile e, a 18 anni, nel carcere di Poggioreale. Passerà sette anni in cella, cambiando diversi penitenziari. Poi il riscatto, dal carcere di Secondigliano al red carpet di Venezia: è la storia di Ramon D’Andrea.

Ramon, partiamo dall’inizio: com’è finito in carcere?
«Sono nato in una delle periferie di Napoli. Mia madre non aveva i soldi per fare la spesa. Non aveva due euro in tasca per metterci un piatto di pasta a tavola. Andavo a mangiare dai miei parenti, per un anno siamo stati in una casa senza corrente elettrica. È iniziato tutto così: un ragazzino che non può mangiare, se non ha alternative, inizia a delinquere. Non è una giustificazione, ma la realtà dei fatti».

Le istituzioni non vi hanno mai aiutato?
«No, mia madre ha chiesto aiuto. A volte arrivavano degli assegni, ma di fatto siamo stati lasciati soli. Ed è in quei vuoti lasciati dalla politica che si inserisce il malaffare».

Oggi si discute di un patto educativo per salvare i ragazzi dalla criminalità. Che cosa si deve fare?
«Creare alternative e opportunità. Le istituzioni devono essere più presenti. Nel mio quartiere ci sono teatri, campetti di calcio e cinema completamente abbandonati. Nessuno se ne occupa. Se non indichiamo ai ragazzi un’altra strada, sono spacciati. Da quando sono uscito dal carcere cerco di insegnare loro che un’altra vita è possibile e che la strada della criminalità non conduce a nulla di buono. Li porto con me a fare a teatro, li propongo come comparse nei film che si girano a Napoli. Quando vedono prospettive diverse dallo spaccio e dalle rapine, sono entusiasti. Magari non li salveremo tutti, ma anche salvarne uno su cento è una vittoria. La politica, però, deve fare la sua parte ed essere presente, soprattutto aiutando economicamente le famiglie in difficoltà. E poi deve cambiare il sistema carcerario».

Che cosa va cambiato nelle carceri?
«Oggi le prigioni non sono luoghi di rieducazione, ma scuole di criminalità. Io sono stato letteralmente buttato in carcere a 18 anni e lì dentro, per sopravvivere, se non sei un criminale, lo diventi per forza. Ero detenuto nel padiglione Napoli, tra gli autori di omicidi, rapine e truffe. A 18 anni sei una spugna: impari da chi ti sta accanto. Senza dimenticare gli abusi degli agenti della polizia penitenziaria che portavano a casa la pasta, il sale, l’olio che i nostri familiari ci spedivano: un inferno».

Poi è arrivata la svolta…
«Sì, sono stato trasferito nel carcere di Campobasso e lì ho preso decine di diplomi. Ho finito la scuola media e conseguito il diploma all’istituto alberghiero. Ho partecipato a laboratori di teatro e sono diventato un “detenuto modello”. Poi ho finito di scontare la mia pena nel carcere di Secondigliano e nel 2016 sono uscito. Nel 2017 ho recitato nel film L’equilibrio di Vincenzo Marra e ho persino sfilato sul red carpet del Festival del cinema di Venezia. Io, che quelle immagini le guardavo da una cella, ero lì: sembra impossibile, eppure ce l’ho fatta».

Che cosa direbbe ai ragazzini che sono già impigliati nelle maglie della criminalità?
«Quello che avrei voluto sentirmi dire io da bambino: un’altra vita è possibile, la delinquenza non porta da nessuna parte. E alle istituzioni dico: siate presenti».

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.