Il precedente drammatico primato fermo a 72 perone nel 2009
La strage in carcere, 74 detenuti si sono tolti la vita nel 2022: mai così tante
L’ultimo a togliersi la vita è stato un detenuto del carcere Antonio Burrafato a Termini Imerese. Era disabile, aveva una protesi e ha avuto problemi con la droga. Dopo due giorni dall’arresto, si è chiuso in bagno e si è tolto la vita con la cintura dei pantaloni. Pochi giorni prima a Torino, Tecca Gambe, 36 anni, originario del Gambia, l’ha fatta finita nemmeno 48 ore dopo il suo arresto, mentre aspettava la decisione del giudice che avrebbe stabilito se trattenerlo in cella o no. Aveva rubato delle cuffiette da 24 euro. Quella nelle carceri sembra una strage senza fine e il 2022 che ancora non è finito presenta numeri da triste primato. Secondo quanto riportato da Antigone, dall’inizio dell’anno 74 persone si sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena. Mai così tante da quando si registra questo dato. Il precedente drammatico primato era del 2009, quando al 31 dicembre si erano suicidate 72 persone. Oggi, a fine anno, mancano ancora due mesi.
Scrive Antigone in una nota: “Oltre al valore in termini assoluti, l’indicatore principale per valutare l’andamento del fenomeno è il cosiddetto tasso di suicidi, ossia la relazione tra il numero dei casi e la media delle persone detenute nel corso dell’anno. Non essendo ancora terminato il 2022, possiamo oggi calcolare il tasso di suicidi solo tra il mese di gennaio e settembre, ossia a quando risale l’ultimo aggiornamento sulla popolazione detenuta. Con un numero di presenze medie pari a 54.920 detenuti e 65 decessi avvenuti in questi nove mesi, il tasso di suicidi è oggi pari circa a 13 casi ogni 10.000 persone detenute: si tratta del valore più alto mai registrato. In carcere ci si uccide oltre 21 volte in più che nel mondo libero. Quando nel 2009 si suicidarono 72 persone, i detenuti erano circa 7.000 in più”.
Un altro dato drammatico è quello dei suicidi nella popolazione detenuta femminile. Finora sono stati cinque. Con un tasso superiore a quello degli uomini, pari a quasi il 22%. Nel 2021 e nel 2020 “solo” due si erano tolte la vita. Nessuna nel 2019. Quasi il 50% dei casi di suicidi sono poi stati commessi da persone di origine straniera. Se circa un terzo della popolazione detenuta è straniera, vediamo quindi come l’incidenza di suicidi è significativamente maggiore tra questi detenuti. Dalle poche informazioni a disposizione, sembrerebbe che circa un terzo dei casi di suicidi riguardava persone con un patologia psichiatrica, accertata o presunta, e/o una dipendenza da sostanze, alcol o farmaci.
Le Case Circondariali di Foggia e di Milano San Vittore restano i due istituti con il maggior numero di suicidi nel corso dell’anno, con quattro decessi ognuna. Seguono con tre decessi, gli istituti di Roma Regina Coeli, Monza, Firenze Sollicciano, Torino e Palermo Ucciardone.
“Ovviamente non è possibile ricondurre l’accelerazione del fenomeno di quest’anno a delle ragioni precise – continua la nota di Antigone – Ogni storia è a sé, frutto di personali dolori e personali considerazioni. Quello che però possiamo sicuramente dire è che la maggior parte delle persone che entrano in un istituto di pena hanno alle spalle situazioni già di ampia complessità: marginalità sociale ed economica, disagi psichici e dipendenze caratterizzano gran parte della popolazione detenuta. In questi ultimi anni, Antigone nelle sue visite ha raccolto un numero sempre crescente di segnalazioni relative all’aumento di persone detenute con patologie psichiatriche e alla difficoltà di intercettare e gestire tali situazioni, spesso per mancanza di risorse adeguate e per l’inadeguatezza del carcere come luogo per la loro collocazione”.
“A tutto questo si è aggiunto negli ultimi anni la pandemia e i vari effetti che essa ha avuto su tutta la popolazione, contribuendo in molti casi ad ampliare e acuire situazioni di solitudine e sofferenza. Per chi era già in carcere e ha subito la chiusura di attività e dei contatti dell’esterno per un lungo periodo, ma anche per chi era fuori e arriva alla detenzione con un affaticamento mentale maggiore di quanto non avvenisse presumibilmente in passato”.
Dopo aver analizzato i drammatici dati Antigone fa delle proposte per uscire da questo tunnel buio in cui sono precipitate le carceri italiane. “Oltre a favorire percorsi alternativi alla detenzione intramuraria, soprattutto per chi ha problematiche psichiatriche e di dipendenza, è necessario migliorare la vita all’interno degli istituti, per ridurre il più possibile il senso di isolamento, di marginalizzazione e l’assenza di speranza per il futuro. Vanno in questo senso favoriti interventi che hanno in generale un impatto positivo su tutta la popolazione detenuta e che possono ovviamente avere un effetto ancora più forte su persone con profonde sofferenze”.
Antigone, in questo senso, un anno fa aveva presentato un documento avanzando alcune proposte di riforma del regolamento penitenziario, al fine di sostenere la necessità di dedicare maggiore attenzione ad alcuni aspetti della vita penitenziaria, affinché il rischio suicidario possa essere controllato e ridimensionato. “Il regolamento dovrebbe a tal fine prevedere in primis una maggiore cura e apertura ai rapporti con l’esterno: più telefonate (da poter effettuare in qualunque momento, direttamente dalla propria stanza detentiva, non solo ai familiari e alle persone terze che rappresentano legami significativi, ma anche alle autorità di garanzia) e allo stesso modo più colloqui”.
“Andrebbe poi garantita particolare attenzione al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali anche quest’anno sono avvenuti numerosi casi di suicidio. L’introduzione alla vita dell’istituto deve avvenire in maniera lenta e graduale, affinché la persona abbia la possibilità di ambientarsi alla nuova condizione e il personale il tempo necessario ad identificare eventuali problematiche e fattori di rischio. Ogni istituto dovrebbe avere reparti ad hoc per i nuovi giunti, un servizio di accoglienza strutturato in cui vengono informati sui diritti e le regole all’interno del penitenziario, la fruizione di colloqui con psicologi e/o psichiatri e maggiori contatti con l’esterno. Maggiore attenzione andrebbe prevista anche per la fase di preparazione al rilascio a fine pena, affinché soprattutto per le persone che non dispongono di una rete solida all’esterno, esso non costituisca un momento traumatico da affrontare in totale assenza di supporto. La persona deve essere accompagnata al rientro in società e dotata dei principali strumenti necessari. Gli istituti devono così dotarsi di un vero e proprio servizio di preparazione al rilascio”.
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