“L’Intelligence! L’Intelligence!” fu il grido pressoché unanime che sgorgò dai petti della sinistra europea di fronte all’11 Settembre. Due settimane prima dell’attacco alle Torri Gemelle era nata la mia prima figlia americana cui abbiamo dato il nome di Liv Liberty. Liv vuol dire vita, l’equivalente di Life, nella lingua della sua nonna materna e poi le affibbiammo come terzo nome l’improbabile acronimo di Atpoh, che sta per And The Pursuit Of Happiness: il diritto alla ricerca della felicità. Povera figlia, l’intera Costituzione americana in un solo nome.

Eravamo a Roma l’11 Settembre quando mi telefonò il mio amico Lou: “Sei alla CNN? Accendi subito. È la guerra”. Accesi: la prima torre era già in fiamme e poteva ancora trattarsi di un incidente catastrofico, ma subito comparve il secondo aereo che filò dritto nella seconda torre e pochi minuti dopo volavano esseri umani che preferivano gettarsi nel vuoto che ardere come torce. Corsi a New York e appena fu possibile andai a Ground Zero che si riempiva di foto e messaggi: qualcuno ha visto questa bambina? È nostra figlia, Qualcuno ha visto il mio papà e la mia mamma? Fu a questo punto, secondo me, che accadde qualcosa in un’area che potremmo definire spicciativamente come la “mentalità di sinistra” di fronte a un fatto enorme e non controvertibile: gli Stati Uniti erano stati attaccati militarmente sul loro suolo da qualcuno e erano nel loro incontestabile diritto di reagire militarmente.

Questa circostanza, benché ammessa, non andava affatto bene specialmente in Europa dove una parte consistente della sinistra aveva radicato nei suoi fondamentali ideologici l’antiamericanismo, e quindi – dopo aver pronunciato tutte le parole di circostanza – si cominciò a dire che la cosa più importante era che gli Stati Uniti si trattenessero, non esagerassero e per questo si iniziò a dibattere seriamente sul tema: come mai gli Usa, con la Cia, la Dia, l’Fbi e ogni attrezzatura spionistica, non hanno saputo e prevedere e impedire l’attacco? In molti Paesi arabi la notizia delle Towers colpite era stata festeggiata con manifestazioni di giubilo e circolavano tutte le falsificazioni possibili secondo cui Usa e Israele, o forse solo Israele o forse solo gli Usa, avevano organizzato una provocazione sanguinosa e spettacolare per avere mano libera e colpire il mondo islamico. La marea montante delle teorie complottistiche secondo cui “gli americani se l’erano fatto da soli e poi guardate: negli elenchi dei morti non c’è un solo ebreo”. Era vero il contrario ma da un punto di vista psicologico la sinistra europea, in parte ex filosovietica e castrista e comunque antimperialista, stava subendo un trauma: non si poteva vietare in alcun modo la retribution.

Retribution è una parola chiave e vuol dire castigo e vendetta. Per la mentalità anglosassone chi va in galera non sta percorrendo un cammino di riabilitazione ma sta pagando il fio delle sue colpe. L’America ferita l’Undici Settembre del 2001 era straziata, spaventata (l’America è donna, mamma, bambini a scuola e al parco) e una sua parte chiedeva retribution come dopo l’attacco giapponese di Pearl Harbor. Fu allora (nel mio ricordo totalmente soggettivo di giornalista e testimone con l’intero cuore in America) che notai l’emergere di un pensiero che mi suonava falso – espresso per di più sotto forma di amichevole consiglio – secondo cui gli Stati Uniti avrebbero fatto bene a trattenere i loro cavalli – hold your horses, e lavorate di intelligence. Che si può fare contro il terrorismo? Scatenare la furia delle bombe e dell’invasione? No, recitava la nuova teoria – per combattere e sconfiggere il terrorismo occorre un accurato lavoro di intelligence. E dunque: l’America, ferita al cuore, faccia l’intelligence e non faccia la guerra.

Potrebbe essere una linea saggia da seguire e anche ragionevole: non farsi prendere da un attacco isterico da grande potenza ferita, e agire con la perfida callidità di uno Sherlock Holmes accompagnato da un tagliagole. Ma davvero l’intelligence è in grado di sostituire e rendere inutile la vendetta della retribution? Quali esempi reali abbiamo, del genere? Apparentemente soltanto uno e non splendido: l’esecuzione a freddo di un vecchio malato e rintanato in una cuccia di cane, di nome Osama bin Laden, l’autore dell’attentato alle Torri Gemelle che la CIA ha cercato e seguito per anni e infine trovato, sicché il presidente democratico Barack Obama dette ordine di formare uno speciale plotone d’esecuzione composto di membri dei copri speciali, con l’incarico di irrompere nel rifugio di Osama seduto per terra e inebetito, scaricargli una raffica di mitra, portarne via il cadavere, incenerirlo e gettare le ceneri nell’oceano.

Con tutto il rispetto, una tale operazione di intelligence appare disgustosa e inaccettabile perché basata su una condanna senza processo e una esecuzione come se fosse autorizzata da una sentenza. Obama è stato criticato moltissimo per avere autorizzato una quantità di omicidi mirati e attuati dai droni, omicidi che richiedono l’ok finale del Presidente e che sono eseguiti da droni dotati di telecamere che proiettano le loro immagini nei locali operativi della Casa Bianca ed hanno sempre effetti collaterali, nel senso che l’uccisione di un supposto terrorista non è mai certa e quasi sempre accompagnata da collateral damnages, che sarebbero gli innocenti che ci lasciano la pelle in un calcolo di pro e contro che viene di volta in volta considerato accettabile o non accettabile. In genere, accettabile. Anche Putin fece approvare una legge dalla Duma nel 2006 che autorizzava il Presidente ad ordinare la soppressione di qualsiasi persona fosse ritenuta un nemico dello Stato russo, non importa di quale nazionalità fosse e in quale Paese si trovasse.

La Francia, da Robespierre a De Gaulle poi fino ai giorni nostri ha sempre avuto i gruppi “Nikita” (Il film di riferimento) formati da assassini di Stato che non devono rispondere a nessuno salvo il presidente.
Come è noto, gli agenti di Mi6 del Regno Unito hanno sempre avuto, come ha dettagliatamente narrato l’ex agente Ian Fleming, la “licenza di uccidere”. Si dirà: ma questo non c’entra con l’Intelligence, che è un’altra cosa. In parte è vero, ma in parte no: perché l’Intelligence, quando è terminato il lavoro della conoscenza, deve affidare i suoi risultati a corpi armati che siano in grado di neutralizzare – cioè uccidere – il nemico senza fare troppo chiasso.

Chi ha visto la serie Glooming Towers o ha seguito i processi, seguiti alla strage delle Torri Gemelle, sa come andarono le cose: l’FBI aveva compiuto un eccellente lavoro di intelligence prima del “Nine Eleven” (come gli americani dicono quella data infausta) ma un tappo burocratico aveva lasciato che il terrorismo vincesse. Tuttavia, il dibattito o meglio il pressante appello affinché l’America non facesse scenate infantili (una guerra) e si comportasse invece da bambino adulto (come l’astutissima sinistra europea suggeriva) lavorando di Intelligence, proseguì a lungo ed oggi riemerge con il disastro afgano. Come sappiamo, gli Stati Uniti fecero entrambe le cose: un lavoro di Intelligence di gran qualità ma sfortunato e una guerra. Una guerra che è durata vent’anni e che è stata dichiarata sia persa che inutile, giudizi entrambi opinabili.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.