Ci sono due cose che mi inquietano, in queste ore successive all’arresto di Matteo Messina Denaro. La prima è la rivendicazione del governo, che getta la cattura del boss sul piatto della polemica politica. Sembra quasi che Giorgia Meloni l’abbia acciuffato lei personalmente, che si sia appostata all’uscita delle clinica e gli sia saltata addosso. La seconda cosa inquietante è la polemica del fronte giustizialista che si scaglia contro chi – sostiene – per trent’anni non ha arrestato il boss, per incuria o (più probabilmente) per complicità. I giustizialisti diventano complottisti, anzi restano complottisti perché il giustizialismo genuino è fatto solo di complotti. Dicono che c’era un disegno per non arrestare Messina.

In realtà le tesi dei complottisti, in gran parte Cinque Stelle, e quelle della Meloni, si assomigliano parecchio. Così come si assomigliano le loro conclusioni. Che potremmo riassumere con solo sei parole: carcere duro, carcere duro, carcere duro. Lì, su quel punto, destra-destra e cinque stelle finiscono sempre per ritrovarsi insieme: il mito della punizione, della vendetta, del carcere come “logos” e fine ultimo della modernità e della politica. Io mi permetto di contestare tutte e due le tesi. MMD non è stato catturato dal governo ma dai Ros (quelli che catturarono anche Riina e poi la pagarono cara questa imprudenza, e furono messi alla sbarra dalla magistratura palermitana) guidati dalla attuale procura di Palermo, diretta dal dottor De Lucia. Il governo fa bene a gioire per il colpo inferto alla mafia, ma è assurdo prendersene i meriti.

Proprio per questa ragione è altrettanto insensato assegnare alla politica i demeriti per la mancata cattura di Messina Denaro negli ultimi 30 anni (durante i quali si sono alternati, a occhio, tre governi di centrodestra, cinque o sei di centrosinistra e tre o quattro di unità nazionale). Le forze dell’ordine, su incarico della magistratura, potevano agire liberamente e operare per catturare il boss. Senza chiedere l’autorizzazione di palazzo Chigi e senza subirne condizionamenti. Anche per questa ragione mi sembra del tutto spropositata la polemica del Fatto Quotidiano. Il suo direttore, Marco Travaglio, che politicamente è molto vicino ai Cinque Stelle, ieri ha scritto un editoriale feroce, se ho capito bene, contro i magistrati di Palermo. Credo che in particolare si riferisse a uomini di primo piano, come Roberto Scarpinato, Nino Di Matteo e Antonio Ingroia. Cioè alle punte di lancia che per molti anni la magistratura ha schierato contro la mafia. Anche attraverso molte interviste sui giornali e soprattutto in Tv. Travaglio chiede loro conto del perché non sia stato catturato Messina, che pure, si scopre oggi, non si è mai mosso dalla Sicilia e non aveva neppure tentato di modificare i suoi connotati, né, pare, avesse atteggiamenti particolarmente prudenti. Giusto chiedere conto, per carità: effettivamente per circa 15 anni l’antimafia palermitana ha dormito un po’.

Forse perché era impegnata tutta nel tentativo di portare a termine l’inchiesta “trattativa”, che puntava a delegittimare e incarcerare il generale Mori, cioè l’uomo che più di tutti gli altri, insieme a Falcone e a Borsellino, aveva inferto colpi a Cosa Nostra. E forse puntava anche a tirare in ballo in qualche modo Berlusconi. Credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che quel pezzo di magistratura siciliana ha commesso errori gravissimi (compreso quello di aver avallato per diversi anni il depistaggio di un falso pentito che mandò all’aria l’inchiesta sull’uccisione di Borsellino, e compresa l’archiviazione del dossier, clamoroso, preparato dall’allora colonnello Mori e da Falcone sui rapporti tra Cosa Nostra e imprenditori del Nord e sul traffico degli appalti). Ma questa critica non ci autorizza ad avallare la teoria del complotto. E cioè a ipotizzare che “ci siano state “complicità istituzionali”, come sostiene Travaglio. Riferendosi evidentemente alla magistratura siciliana (a chi altri sennò?). Francamente a me pare che le accuse di Travaglio siano assolutamente esagerate.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.