Stragi, omicidi, attentati e messaggi minatori. La vita di Matteo Messina Denaro è stata costellata di crimini e il suo arresto avvenuto il 16 gennaio dopo 30 anni di latitanza potrebbe riportare alla luce segreti del passato e del presente sulla criminalità organizzata. Messina denaro era rimasto l’ultimo superlatitante della strategia della tensione corleonese che ha cambiato la storia d’Italia, era uno dei rampolli di Totò Riina ed era ricercato dopo l’arresto del “capo dei capi”. Riuscire a prenderlo era diventata una sfida.

“Sono il quarto di sei figli e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi”, dettò a verbale Matteo, negli uffici della Squadra mobile di Trapani, il 30 giugno 1988, ascoltato come testimone nell’indagine per un omicidio. Quello che non disse e che oltre al lavoro nei campi portava avanti anche l’attività criminale del padre don Ciccio in quel triangolo fra Castelvetrano, Marsala e Trapani, un ‘regno’ poi ereditato dal figlio Matteo.

Nel 1989 il padre lo fece partecipare agli omicidi di 4 uomini s’onore della famiglia di Alcamo in dissenso con le strategie trapanesi e corleonesi, strangolati e sciolti nell’acido, come la mafia usava fare in quei tempi. A vent’anni Messina Denaro partecipò attivamente, assieme ai corleonesi, alla guerra contro le famiglie ribelli di Marsala e del Belice. Divenne il pupillo di Totò Riina. Era già un mafioso però prendeva l’indennità di disoccupazione dall’Inps, e se ne vantava. A 27 anni venne denunciato per associazione mafiosa.

Secondo il racconto dei pentiti Messina denaro aveva già ucciso, forse già quando era ancora minorenne. La contabilità ufficiale dei morti ammazzati coincide con almeno venti condanne all’ergastolo per altrettanti delitti, tra i quali quello del bambino Giuseppe Di Matteo, sequestrato e ammazzato per vendetta e per dare l’esempio, dopo il pentimento del padre Santino, uno dei manovali della strage di Capaci; e quello di un vice-direttore d’albergo dove lavorava una ragazza austriaca di cui Matteo si era innamorato, e che si lamentava perché quel ragazzotto e i suoi amici frequentavano l’hotel infastidendola.

Il primo a indagare a scrivere il nome di Matteo Messina Denaro in un fascicolo di indagine fu Paolo Borsellino nel 1989. Un commissario di polizia, Rino Germanà iniziò a indagare su di lui. Così Matteo Messina Denaro insieme a Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, a bordo di una Fiat Tipo, intercettarono Germanà sul lungomare di Mazara del Vallo e iniziarono a sparargli addosso. Il poliziotto si buttò in mare e dietro di lui anche Bagarella ma il suo Kalašnikov si inceppò. E così il poliziotto si salvò. Dopo l’attentato ufficialmente il suo nome è stato iscritto nella lista dei ricercati il 2 giugno 1993. A quel punto era già diventato il capo di Cosa Nostra nella provincia di Trapani, leader indiscusso delle nuove leve. La maggior parte dei suoi guadagni arrivavano dalle estorsioni, smaltimento illegale dei rifiuti, riciclaggio di denaro e dal traffico di droga.

Tanto denaro arrivava anche dagli appalti: la sua famiglia aveva praticamente il monopolio delle costruzioni nella provincia. Era della famiglia tutto il ciclo produttivo che ha portato all’edificazione di case abusive ovunque, lungo la costa di Castelvetrano e Mazara del Vallo. Ed erano nella aziende dove si produceva la calcestruzzo che avvenivano anche i summit mafiosi. In uno di questi venne deciso l’attentato a Maurizio Costanzo e fu messa a punto la strategia stragista che Messina Denaro condivise in pieno. Fu lui a segnalare a Riina i monumenti a Roma, Milano e Firenze da colpire per attaccare lo Stato tra il 1992 e il 1993. Iniziarono a studiare i movimenti di Maurizio Costanzo, andarono almeno due volte al teatro Parioli dove Costanzo registrava la sua trasmissione. L’attentato fu compiuto in via Fauro, a Roma, il 14 maggio 1993: Costanzo e la moglie Maria De Filippi ne uscirono illesi.

Messina Denaro decise che dopo Vincenzo Milazzo, capomafia di Alcamo molto critico nei confronti dei corleonesi, dovesse morire anche la fidanzata Antonella Bonomo, incinta di tre mesi, strangolata il 15 luglio 1992. Fu sempre lui ad autorizzare il rapimento e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, figlio tredicenne di un mafioso pentito, rapito a San Giuseppe Jato, in provincia di Palermo, il 23 novembre 1993, strangolato e poi sciolto nell’acido da Giovanni Brusca l’11 gennaio 1996, dopo 25 mesi di prigionia. Dopo l’arresto di Totò Riina, il 15 gennaio del 1993, Messina Denaro divenne il capo indiscusso di Cosa Nostra. Impartiva ordini dai suoi nascondigli tramite “pizzini” cifrati e messaggeri fidati. Il collaboratore di giustizia Mariano Concetto ha anche detto di aver ricevuto l’incarico da Messina Denaro di rubare il Satiro Danzante, importantissimo reperto archeologico custodito a Mazara del Vallo. Per quel lavoro, rivelò Concetto, “il capo disse che non avremmo visto un euro. E che se ci fossimo lamentati saremmo finiti nel canale di Messina”. Quel furto però Messina Denaro non è mai riuscito a portarlo a termine.

Nel 1993, quando iniziò la latitanza, nei suoi confronti venne emesso un mandato di cattura per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materiale esplosivo, furto e altri reati minori. Nel 2000 al maxi-processo Omega venne condannato in contumacia all’ergastolo. Il 21 ottobre 2020 venne condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Caltanissetta per essere stato uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio in cui vennero uccisi di giudici Falcone e Borsellino e le loro scorte.

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Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.