Le ormai famigerate chat dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara hanno fatto ieri una nuova vittima illustre. A finire sotto la scure del Consiglio superiore della magistratura è stata questa volta Lucia Musti, ex procuratrice di Modena ed in corsa per il posto di procuratore generale di Bologna.

Rispetto ai concorrenti, il procuratore di Aosta Paolo Fortuna, poi nominato, ed il rappresentate italiano presso Eurojust Filippo Spiezia, la magistrata aveva i titoli migliori, potendo contare su oltre trent’anni d’esperienza in uffici di Procura, anche con incarichi importanti. Le chat con Palamara, però, riemerse come un fiume carsico, anzi, come “l’isola ferdinandea” per utilizzare le parole del laico pentastellato Michele Papa, le sono state fatali, stroncando le sue aspirazioni di carriera.

Agli inizi del 2019 la toga si era rivolta all’ex capo dell’Anm, come centinaia di altri magistrati, per caldeggiare il suo trasferimento al termine di un contenzioso amministrativo. A febbraio del 2016, il Csm l’aveva nominata procuratore di Modena, bocciando il collega Paolo Giovagnoli. Quest’ultimo si era allora rivolto al giudice amministrativo che, a gennaio del 2018, gli dava ragione, annullando la nomina di Musti. Il Csm, dopo aver riesaminato la pratica, nominava per la seconda volta Musti. Immediato il nuovo ricorso da parte di Giovagnoli al Consiglio di Stato che bocciava la decisione del Csm e ordinava di esaminare ancora una volta la nomina, dando un termine di venti giorni.

A Palazzo dei Marescialli nominavano però per la terza volta Musti capo della Procura di Modena. A settembre del 2018 si insediava la nuova consiliatura ed arrivava un nuovo ricorso di Giovagnoli al quale il Csm decideva per la quarta volta di opporsi dando mandato all’Avvocatura dello Stato. Questo tormentone terminava a gennaio del 2019 con il Consiglio di Stato che ‘obbligava’ il Csm a nominare Giovagnoli una volta per tutte. Interrogata allora sul motivo di questa “interlocuzione”, Musti aveva esordito che non conosceva Palamara e che il numero di telefono le era stato dato un collega. Si era rivolta a Palamara perché in passato, quando era al Csm, era “stato il relatore su due delle mie tre nomine”. Palamara, quindi, l’aveva ‘catechizzata’, rappresentandogli che “senza le raccomandazioni, senza i giochi di potere, non si va da nessuna parte”. E, alla domanda “aiutami, dammi un consiglio, dove vado?”, Palamara non aveva però fatto nulla.

Nonostante ciò, per il Csm si era trattato di un “tentativo di orientare, secondo le proprie soggettive aspirazioni, le scelte dell’Organo di autogoverno con riferimento alla propria ricollocazione nelle funzioni all’esito degli annullamenti da parte del giudice amministrativo”. Anche se, nel 2019, Palamara non era più un consigliere del Csm ma un pm a Roma. Per il Csm, la magistrata avrebbe dovuto provare “ad avere una interlocuzione formale con il Csm al fine di individuare una soluzione ai problemi dalla stessa rappresentati a Palamara”.

“Ebbene, in quanto finalizzate ad incidere sulle funzioni proprie del Csm al di fuori di qualsiasi formale contesto di dialogo con il medesimo Consiglio e avvenute con un magistrato, Palamara, che aveva già cessato le proprie funzioni presso lo stesso Organo di autogoverno”, le chat “evidenziano l’adozione di un comportamento grave, reiterato ed inopportuno, che non può non riverberarsi in un giudizio di inidoneità della stessa a ricoprire l’incarico”. Bocciatura, quindi, senza appello a cui ha provato ad opporsi il laico Ernesto Carbone, relatore della pratica a favore di Musti come pg a Bologna. Con Carbone hanno votato anche Papa e la togata progressista Mariafrancesca Abenavoli. “Su queste chat non ha mai indagato la Procura generale e il Csm perché è stato ritenuto che non ci fosse stata alcuna interferenza”, ha ricordato Carbone.

La magistrata era balzata agli onori delle cronache per una delle tante fughe di notizie che caratterizzano le indagini in Italia. Il periodo era il 2015 quando a Modena venne trasmesso uno stralcio dell’indagine sul caso Cpl-Concordia, aperta a Napoli dal pm Henry John Woodcock, con l’informativa preparata dal Noe dei carabinieri. Nel fascicolo erano state inserite le conversazioni telefoniche captate l’anno prima tra il generale della guardia di finanza Michele Adinolfi e Matteo Renzi.

L’11 gennaio del 2014 Adinolfi, intercettato dai carabinieri, aveva chiamato Renzi per gli auguri di compleanno. Si trattava di “intercettazioni che non avevano alcuna rilevanza penale”, disse Musti dopo che le stesse vennero pubblicate integralmente dal Fatto Quotidiano a luglio del 2015, stoppando la carriera di Adinolfi.