Con buona approssimazione, gli intellettuali di sinistra nemici dell’Ucraina si possono suddividere in due categorie: i nostalgici dello stalinismo sovietico e gli ex “servitori del popolo” maoisti. Entrambi non amano i valori della democrazia liberale, e al cuore – si sa – non si comanda. Non deve quindi stupire la loro ostilità nei confronti di un paese che vuole appartenere all’Occidente. Né deve sorprendere che attribuiscano l’origine lontana della guerra agli “amerikani” o ai “gringos”, come vengono chiamati a seconda delle latitudini.

Con ciò intendo dire che è difficile, se non inutile, discutere con chi nega l’evidenza dei fatti. E la nega a prescindere – come direbbe Totò – perché per la sua mentalità complottista l’Occidente è il regno della menzogna, è l’arte di truccare la comunicazione, è la fabbrica di una verità di facciata. Una posizione da cui nasce quel paradosso logico secondo cui non dare le armi a Zelensky per difendersi da un’aggressione spianerebbe la strada al negoziato, e non alla vittoria di Putin. Ovviamente in questo delirante ragionamento c’è posto anche per i semplici propagandisti di Mosca, prezzolati o meno poco importa. Tuttavia essi sono meno insidiosi di quelli che “l’Europa e gli Stati Uniti non vogliono la pace”.

Una tesi – bisogna ammetterlo – che ha una certa presa sull’opinione pubblica italiana, grazie anche alle quotidiane lezioni di realpolitik impartite sulla carta stampata e sul piccolo schermo dai sedicenti intellettuali progressisti. Ma l’intellettuale è sempre stata una bestia strana. Secondo Luciano Bianciardi, insofferente a ogni establishment culturale, il suo mestiere era indefinibile. Per l’autore della “Vita agra” il vero intellettuale, in fondo, doveva essere schiavo di tutti e servo di nessuno, ma sicuramente non un acrobata del circo equestre nazionale.