Mentre in Senato si votava la prima lettura della riforma sul premierato, in piazza SS. Apostoli si riunivano le opposizioni, con la sola assenza di Italia Viva e Azione, che comunque hanno votato contro. È andata così in scena una situazione politico-istituzionale che resterà probabilmente per tutta la legislatura, in una sorta di duello western (la similitudine è di Mario Lavìa). Da parte sua, il governo non ha in alcun modo cercato il dialogo con le opposizioni; e ha perfino ignorato le più che sensate osservazioni di un suo membro autorevole come l’ex-presidente del Senato, Marcello Pera. Mentre sull’altro fronte nessuno ha preso in minima considerazione le osservazioni e i suggerimenti avanzati da diversi esperti d’area e non; ma sarebbe più esatto dire che nessuno ha preso in considerazione l’idea stessa che si possa mettere mano a una riforma della Costituzione.

La riforma debole e carente

Ora, se questo sia, da una parte e dall’altra, un modo produttivo di condurre non solo una riforma costituzionale, ma l’intera legislatura, è veramente difficile pensarlo. La responsabilità principale è naturalmente del governo, e in prima persona dalla premier, che si è intestata questa riforma. Giorgia Meloni si trova di fronte a rischi non piccoli: il destino dei precedenti molteplici tentativi sta lì a dimostrarlo. Certo, il quesito referendario sarebbe in questo caso più semplice e certamente più accattivante: volete eleggere direttamente il capo del governo? Ma questo non basta certamente a garantire il risultato. Renzi può testimoniare come il vento dell’opinione pubblica possa cambiare, e come avere tutti contro sia pericoloso. Ma il rischio maggiore, che è un rischio per l’intero paese, è che la riforma che uscirà sia debole e carente su punti fondamentali. Ieri sul Sole24ore Francesco Clementi, costituzionalista non pregiudizialmente contrario alla riforma, ne indicava le principali lacune: l’elezione diretta che rischia di essere un elemento di rigidità, gli equilibri e le garanzie (soprattutto in relazione al Presidente della Repubblica e alle sue modalità di elezione) che mancano, e, tema essenziale parlando di una elezione diretta, la legge elettorale, che dovrebbe comunque salvaguardare già a livello costituzionale alcuni aspetti (come la soglia per eventuale premio di maggioranza, ma anche il modo di conteggiare il voto degli italiani all’estero), che peraltro cadrebbero facilmente sotto la giurisprudenza della Corte costituzionale. In sostanza, un progetto tecnicamente molto debole: conviene alla premier andare avanti con questa proposta?

La ricerca di unità

Dall’altro lato, dal lato delle opposizioni, e anzitutto da quella che oggi ne è la guida, il Partito democratico, si esclude qualunque riflessione che non sia il puro e semplice rifiuto di questa e di qualsiasi riforma, in nome della difesa della Costituzione. Però, com’è stato ribadito mille volte, la Costituzione si difende anche riformandola; non a caso i costituenti hanno disegnato nell’art. 138 un percorso molto chiaro, che vorrebbe spingere i parlamentari a lavorare insieme. La manifestazione di due giorni fa è stata certamente un successo per il Pd, ma dove porta questo successo? I numerosi partecipanti hanno gridato con convinzione “unità, unità”, ma unità per andare dove? Per battere la destra, certo. Ma la destra non si batte solo con la contrapposizione. Ci vogliono idee e proposte. L’eventuale vittoria nel referendum sul premierato non basterebbe a creare un’opposizione veramente unitaria. Se l’unità si fa con la politica e non solo con i numeri.