Nel decennale dell’accordo di Pomigliano d’Arco, Marco Bentivogli ha ricevuto una lettera contenente cinque pallottole e un bigliettino con una scritta (male)augurale: «Festeggeremo insieme l’accordo di Pomigliano. Ovunque a Roma o ad Ancona, non bastano le dimissioni». A parte il fatto che Bentivogli è segretario generale della Fim-Cisl dal 2014 e quindi non fu lui a prendere da solo la decisione di continuare la trattativa con la delegazione Fiat e arrivare ad un accordo insieme con gli altri sindacati, le minacce a dieci anni di distanza mettono in evidenza diversi profili miserabili. Prima di tutto – dobbiamo dirlo – nel gruppo dirigente della Cisl che – è fin troppo evidente – ha indotto Bentivogli a dimettersi sui due piedi. Le voci – né confermate né smentite – narrano di una minaccia di commissariamento della federazione dei metalmeccanici, in conseguenza di irregolarità riscontrate nel tesseramento. Per la Cisl tale critica a una delle sue strutture, di categoria e territoriali, è come sparare sulla Croce Rossa, perché è consueto l’uso – scorretto ma molto frequente nelle associazioni politiche e sindacali dove “uno vale uno” al momento del voto – di aumentare il numero degli iscritti negli anni dei congressi.

Nel momento in cui la segreteria confederale ha calato l’asso di briscola contro Bentivogli (minacciando una “normalizzazione” della categoria “fumantina”) forse aveva dimenticato l’anniversario di una pagina sindacale che aveva reso onore alla Cisl. E un’organizzazione non fa una bella figura se, proprio negli stessi giorni 10 anni dopo, se ne va un dirigente che di quella vicenda era stato uno dei protagonisti. Soprattutto, se poche ore dopo ‘’l’uomo da bruciare’’ viene minacciato di morte per il servizio reso al suo sindacato e ai lavoratori. Ma la lettera (col suo contenuto) oltre che essere frutto di una incredibile miseria morale, dimostra che i suoi autori sono degli imbecilli, incapaci non dico di riconoscere i propri errori, ma di insistere nel violentare la verità dei fatti. Sarebbe ora di riflettere sull’atteggiamento con cui una parte consistente dell’establishment mediatico e culturale del Paese seguì e commentò una delle più importanti iniziative di politica industriale degli ultimi vent’anni.

In sostanza, più sui programmi tv che sui quotidiani, la vicenda dello stabilimento Giambattista Vico fu riassunta nel seguente interrogativo: è giusto rinunciare ai diritti in cambio di lavoro? Sulla base di questa rappresentazione fasulla della realtà i sindacati favorevoli all’intesa vennero indicati come succubi del «padrone» e i lavoratori che votarono sì come i soliti replicanti del vizio italiano del «tengo famiglia». Ma dove stavano i diritti (addirittura di rango costituzionale) conculcati dalle norme dell’accordo? Non è certamente un diritto abusare dei certificati medici per motivi che nulla hanno a che fare con le condizioni di salute. Eppure, la «solfa» dei diritti calpestati mediante il «vile ricatto» del lavoro fu avallata da fior di giuslavoristi, quegli stessi che nelle Università insegnavano ai nostri figli e preparavano gli operatori giuridici di domani.

In particolare, si è sostenne che l’accordo conculcava il diritto di sciopero. Per sostenere questa tesi si arrivò a teorizzare l’astensione dal lavoro come un diritto individuale indisponibile, inalienabile e assoluto. Sergio Marchionne, a Pomigliano pose ai sindacati dei problemi reali: come trovare delle soluzioni concordate e condivise per combattere il ricorso anomalo allo sciopero e gli abusi nell’assenteismo. Sergio Marchionne voleva correggere le distorsioni e gli abusi dei diritti, affidandosi non già alla discrezionalità dell’azienda, ma alla valutazione di comitati paritetici istituiti dalla contrattazione collettiva. La Fiat proponeva, dunque, un nuovo modello di relazioni industriali in un’area di frontiera, sfidando i sindacati a dimostrare che anche in Campania era possibile lavorare, non tanto come in Polonia, quanto come a Detroit e in Canada.

Perché non poteva più essere consentito ad imprese, che devono competere sul mercato globale, di impiegare ingenti risorse nel mantenere dei posti di lavoro improduttivi per i quali la retribuzione era comunque dovuta e pretesa, mentre la prestazione era soltanto un favore all’azienda. Contro Sergio Marchionne si schierarono tutti: governo, partiti, sindacati, grande stampa, tg di regime. Ci furono persino esponenti capaci e responsabili del Pd, pur favorevoli all’accordo, che dichiararono candidamente: «Di intese così, si fa questa, poi basta». Persino la Procura competente annunciò di aver aperto un fascicolo: un atto che ricordava molto il “tintinnar di manette”, che, in seguito abbiamo visto ripresentarsi di nuovo nell’assassinio premeditato dell’ex Ilva. Ma, nonostante quell’atmosfera, nel giugno del 2010, l’accordo fu stipulato e sottoscritto dai sindacati con l’eccezione della Fiom allora diretta da Maurizio Landini. Fu sottoposto al voto dei lavoratori che lo approvarono in modo netto (63%). Ma i nemici dell’accordo – che nel frattempo era stato esteso agli altri stabilimenti italiani del gruppo ormai multinazionale – non disarmarono.

Si direbbe, quasi, che quella storia non sia più stata ripensata dal 2010 in poi. È rimasta la cronaca di una battaglia perduta dalla Fiom, ma (quasi) nessuno si è premurato di “raccontare” la nuova fabbrica, dove gli investimenti sono stati fatti, le tecnologie innovative introdotte, l’organizzazione del lavoro migliorata. La vertenza di Pomigliano d’Arco doveva transitare ai posteri come una Gettysburg campana, dove il sindacato, quello vero, era stato sconfitto, e la condizione operaia riportata indietro, i diritti calpestati e vilipesi. A rompere questa cortina di silenzio, a svelare l’ostracismo perpetrato nel corso di un decennio è venuto un libro, Fabbrica Futuro scritto a due mani per Egea, dallo stesso Marco Bentivogli e da Diodato Pirone, giornalista de Il Messaggero, che ha passato tutto questo tempo ad interrogarsi – incredulo – sui motivi di tanta omertà nei confronti di uno stabilimento tra i più moderni, sicuri e produttivi d’Europa.