Le dimissioni di Marco Bentivogli richiedono delle spiegazioni che vanno ben oltre quelle di carattere personale indicate nella lettera con cui annuncia di lasciare la segreteria generale della Fim-Cisl dopo ben 25 anni di militanza e dopo essere arrivato a quell’incarico, senza mai essersi mai iscritto – pur essendo figlio d’arte di Franco – alla direzione fin da bambino, come è capitato a tanti altri nel mondo strano della politica. Bentivogli – se si può dire – è partito “dalla strada”, dai cancelli delle fabbriche nelle periferie delle città industriali e passo dopo passo è arrivato ai vertici di una grande e gloriosa organizzazione di categoria. Se osserviamo i curricula dei sindacalisti dei metalmeccanici si nota una particolarità che li contraddistingue dai colleghi di altri settori. Loro – ciò vale in generale per gli appartenenti a tutte tre le sigle – non lasciano la categoria per andare a dirigere altre federazioni. Perché non ne vale la pena.

Appartenere alla Fiom, alla Fim e alla Uilm è come essere parte della Vecchia Guardia di Napoleone o dei Fucilieri della Regina o comunque di un reparto onusto di vittorie e di pagine eroiche. Si esce, di solito, da quella categoria solo per entrare in una segreteria confederale sia essa locale, regionale o nazionale. Ci fu un tempo – dopo l’epica dell’autunno caldo e del rinnovo contrattuale della fine del 1969 – in cui gli incarichi di dirigenti delle strutture territoriali ai vari livelli erano automaticamente prenotati dai segretari delle corrispondenti federazioni dei metalmeccanici. Oggi i tempi sono cambiati: a volte i dirigenti della Fiom sono sembrati confinati nelle riserve alla stregua di nobile tribù di nativi, pronti a tutto pur di non rinunciare al loro mondo. Eppure, alla guida della Cgil, vi è Maurizio Landini, che ha un’anzianità di servizio con le tute blu non inferiore a quella di Bentivogli. Quest’ultimo è stato il vero successore di Pierre Carniti. Il prestigio di un leader si misura dalle sue vittorie (la cui importanza è intimamente connessa al valore degli sconfitti). Pierre Carniti ebbe ragione – niente meno – che del Pci nel referendum del 1985 sulla questione della “scala mobile”, rompendo l’incantesimo che attribuiva a quel partito un diritto di veto sulle materie riguardanti al lavoro e le pensioni, se mai qualcuno si fosse azzardato a prendere iniziative senza il suo coinvolgimento, in Parlamento, nelle decisioni assunte.

Quella vittoria contribuì – ci vollero ancora degli anni – ad affrancare l’Italia da una devastante inflazione a due cifre e decine. Marco Bentivogli ha vinto la battaglia di Pomigliano d’Arco, grazie alla quale sono stati non solo salvati, ma riorganizzati con nuove tecnologie gli stabilimenti Fiat ancora aperti nel nostro Paese. Per vincere quella sfida non bastò una firma a fianco di quella di Sergio Marchionne; Bentivogli andò a cercare e ad ottenere il consenso di una netta maggioranza di lavoratori. Lo stabilimento Giambattista Vico è oggi uno dei più moderni ed apprezzati d’Europa. Ma il pedigree di un cavallo di razza si svela in Marco per un altro aspetto. Un vero leader dirige la sua organizzazione senza badare troppo ai riti delle burocrazie e delle conventicole interne. È autorevole se il suo messaggio arriva al Paese, se diventa un punto di riferimento del dibattito politico ed economico. Ed è per questo transfert con l’opinione pubblica, con il mondo della politica e della cultura che riesce anche ad essere convincente all’interno della sua organizzazione. Luciano Lama ha diretto per 16 anni la Cgil, presentando come una grande forza tranquilla il sindacato nelle case degli italiani.

E se riteneva maturi i tempi di una svolta non esitava a rilasciare un’intervista che suscitava una ricca discussione ma che finiva con una condivisione persuasa del gruppo dirigente. Bruno Trentin poteva contare su di un prestigio a livello internazionale conquistato attraverso un non comune spessore culturale. Giorgio Benvenuto è stato uno dei pochi segretari generali della Uil a rendere competitiva la sua confederazione con le altre. Bentivogli ha molte caratteristiche di un “cavallo di razza”, capace di esprimere un “pensiero”, di guardare lontano. Ecco perché – a meno che non ci siamo improbabili gravi motivi (a volte vi è l’abitudine di accumulare dossier) – l’atto di Bentivogli è inaccettabile. Tocca al suo sindacato non perdere un dirigente di così grande valore. Sappiamo che ha avuto dei problemi all’interno della Cisl, probabilmente ha camminato talvolta sopra le righe.

Può capitare così quando si avverte, in coscienza, di meritarsi la segreteria generale della Cisl, dopo Annamaria Furlan, ed assistere, invece, ad un disegno di potere che si propone soltanto l’obiettivo di escludere la sua candidatura. Ma anche in questi casi, a 50 anni, bisogna avere pazienza e ragionare su tempi più lunghi. In ogni caso, se la sua lettera fosse espressione di un preciso convincimento, Marco Bentivogli rivelerebbe dei tratti di irresponsabilità che non sarebbero da lui. La sua categoria è impegnata in un difficile rinnovo contrattuale e proprio in questi giorni le tute blu delle fabbriche in crisi scenderanno in piazza.

L’ex Ilva è rimasta nelle mani dei suoi assassini. E l’epidemia sconvolgerà l’organizzazione del lavoro accelerando quei processi di automazione a cui Marco ha dedicato tanto impegno anche culturale. Caro Bentivogli, questa tua sortita non la beviamo. Pierre Carniti era solito citare una frase di un dirigente laburista il quale ammoniva che le libertà sarebbero sempre state in pericolo se una minoranza non avesse continuato a sfidare l’arroganza dei potenti e l’apatia delle masse. E Pierre è stato un esempio vivente di questa concezione della politica. Ricordatelo.