Le chiacchiere malate da stroncare
Le voci sulle indagini di Arianna Meloni e la Repubblica del sospetto: serve un avviso di sfratto al traffico di influenze illecite
Esiste qualcosa di più malato per una democrazia, di voci giornalistiche su un avviso di garanzia a una familiare del capo del governo, che animano, sempre allo stadio di voci, furibonde polemiche e accuse di complotti? C’è uno scenario più torbido di questo rincorrersi di “se fosse vero” e di “non cediamo ai ricatti”, di fantasmi e cospirazioni, trasformando una mite masseria di vacanza in un bunker di guerra?
Sì. Esiste. È l’ipotesi che davvero qualche procura stia indagando Arianna Meloni. Perché sarebbe un’indagine sul nulla. Il traffico di influenze illecite, infatti, non è solo un naturale produttore di traffico di minchiate, come direbbe il commissario Montalbano. Non è solo un reato figlio di un pregiudizio antiliberale, per cui ogni evoluzione dei rapporti sociali fondata su interessi economici è per sua natura peccaminosa – si pensi al sinistro suono attribuito al legittimo concetto di lobby. È soprattutto uno dei pilastri di quella Repubblica del Sospetto che da tre decenni ha preso il posto della cara nostra Repubblica fondata sul lavoro e sul diritto.
Oggi sul tavolo della politica ci sono nodi giganteschi. Due li ricorda Fabio Martini sulla Stampa: gli sbandamenti sull’Ucraina e i problemi del debito italiano (3mila miliardi, 100 miliardi di interessi passivi), di fronte a un’Europa che il “no” alla von der Leyen ha reso più lontana. Bene, alla stragrande maggioranza degli italiani – quelli che non indossano divise ed elmetti di fazione – andrebbe posta la seguente domanda: se voi sapeste che una dirigente del partito di Fratelli d’Italia (nello specifico sorella della premier) ha partecipato a delle riunioni sulle nomine pubbliche, gridereste allo scandalo? Qualsiasi persona di buon senso si stupirebbe del contrario. Se mai si dovrebbe discutere delle competenze di molti nominati, ma si sa, quando il gioco si fa duro, le cose importanti evaporano perché i giustizialisti cominciano a giocare.
E il cappio del giustizialismo italiano, per funzionare, ha bisogno di fattispecie penali talmente generiche da permettere ogni acrobazia. “Un reato in sé difficile da dimostrare”, scrive Marcello Sorgi con penna intinta nell’eufemismo. Più esattamente il traffico di influenze è definito dagli attoniti estensori di saggi giuridici un “reato di pericolo”. Un reato-spia che serve a prevenirne altri, derogando alla regola “nullum crimen sine iniuria”, cioè non ci può essere reato se non vi è offesa al bene giuridico tutelato. È anche una deroga a un principio espressamente enunciato in altro articolo del nostro martoriato codice penale, il 115: “Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo”.
Una deroga al diritto per derogare all’equilibrio dei poteri. Con il reato di pericolo e preventivo siamo entrati nell’affascinante regno delle analisi predittive alla Tom Cruise in “Minority Report”, quelle che tanto fanno paura quando si parla di Intelligenza Artificiale. Solo che qui siamo nero su bianco, quindi norma vigente, articolo 346 bis del codice penale: il reato insorge se una persona sfrutta o vanta relazioni esistenti o asserite con pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio per ottenere “un vantaggio indebito in cambio di denaro o altra utilità”. Come si può avere certezza di tali vanterie? E dove sarebbe il “vantaggio indebito” della dirigente di partito Arianna Meloni? Domande campali che non hanno alcuna possibilità di ottenere risposta. Come tante altre, in questa materia.
Il traffico di influenze, infatti, si tiene per mano con alcuni suoi fratellini nati dal fertile ventre di Mani Pulite: la corruzione e la concussione ambientale, il concorso esterno in mafia, la turbata libertà degli incanti, la concussione per induzione, l’istigazione alla corruzione. L’abuso d’ufficio era un altro campione del diritto penale fondato sul motto, estraneo ai vari Calamandrei e Carnelutti, “indaga, intercetta, alla fine qualcosa trovi”. Bene, è stato abolito solo l’altro ieri, in un plateale stracciarsi di vesti di toghe e politici orfani della forca fai da te.
Insomma, più che ad Arianna Meloni, sarebbe ora di mandare un avviso non di garanzia ma di sfratto al reato di traffico di influenze illecite. Il polverone che si è alzato e continuerà ad appestare l’aria non fa bene alla politica ma ne diminuisce la già non eccelsa popolarità.
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