L’elezione del nuovo Papa conferma un dato ormai strutturale: la Chiesa cattolica è, al momento, l’unica vera istituzione globale. In un contesto internazionale segnato dal progressivo indebolimento degli organismi multilaterali — Nazioni Unite in testa — e dalla frammentazione degli equilibri geopolitici, il Vaticano occupa una posizione unica. Non ha eserciti né quote di mercato, ma dispone di una rete diplomatica e simbolica capillare su scala planetaria, oltre che – per così dire – di una mission univoca e indiscussa.

È dal Concilio Vaticano II che il processo di internazionalizzazione della Chiesa è andato avanti impetuosamente. All’indomani della crisi di Cuba, con la Pacem in terris, Giovanni XXIII parlò al mondo, e non solo ai suoi fedeli; durante il suo quindicennio, Paolo VI avviò un intenso dialogo ecumenico con le altre confessioni; poi fu Giovanni Paolo II a fare clamorosamente del Vicario di Cristo un protagonista della scena globale, contribuendo, più o meno direttamente, al crollo del sistema sovietico, grazie al suo attivismo mediatico e diplomatico. Infine, nell’arco dei dodici anni di Francesco, il carattere universale della Chiesa si è definitivamente affermato con la centralità di grandi temi globali — povertà, migrazioni, diseguaglianze, ambiente — oltre che con l’allargamento inedito della constituency papale.
Per questi motivi – sia detto solo tra parentesi – è stato penosamente provinciale, e figlio di una imbarazzante ignoranza, lo sforzo di chi ha fatto lobbying (i giornali italiani in testa) per un Papa nostrano. Oggi, per la Chiesa, ogni prospettiva nazionale non solo è anacronistica, è irrilevante.

In questo senso anche la elezione di Leone XIV non va analizzata o banalizzata su base geografica. Si stanno già sprecando troppe parole sul possibile o potenziale conflitto tra Robert Francis Prevost e Donald Trump. Entrambi americani, e con uno sguardo lungo sul pianeta, ma l’uno titolare, magari controvoglia, di un modello occidentale terremotato e incerto, l’altro detentore di un’agenda universale che, al contrario, sta consolidando le sue priorità. La confrontation ravvicinata tra i due mondi non si farà attendere, per quanto il nuovo Papa sia conosciuto come uomo prudente e di mediazione. Ma non sarà tra due yankees. Sarà tra due idee di società.

E sarà una sfida politica, inevitabilmente. Il nuovo Papa eredita una linea, ma dovrà darle continuità con strumenti adeguati. Dove Francesco ha agito spesso in controtendenza, anche con tratti profetici, Leone sarà chiamato a lavorare sul consolidamento del messaggio di Bergoglio e sull’impatto globale della Chiesa nel mondo. Dovrà – come lui stesso ha dichiarato – costruire ponti, rafforzare reti. E dunque entrare anche nel confronto internazionale con maggiore sistematicità. Senza politicizzare il messaggio della Chiesa – nessuno chiede questo – ma conferendo stabilità nel tempo, peso nei contesti decisionali, visibilità negli scenari multilaterali all’unico attore che ha una riconosciuta autorevolezza globale. È un compito non solo pastorale, ma profondamente strategico. Hic Rhodus, hic salta, per Leone.

Sto così evocando una cessione di sovranità della politica verso l’istituzione Chiesa, o aderendo ai contenuti “programmatici” del bergoglismo? Nessuna delle due cose. Anzi, al contrario. Penso semplicemente che le leadership – almeno quelle occidentali – facciano bene prima o poi a prendere atto dell’esistenza di una vera e propria piattaforma politica globale della Chiesa – come non si è mai presentata nella storia – e che sia legittimo parlarne esplicitamente. Purché lo si faccia su basi, come dire, paritarie. Gli obiettivi palingenetici indicati da Francesco, come l’invocazione della pace fatta da Leone ben dieci volte quando si è affacciato sul sagrato di San Pietro, dovrebbero tradursi in sforzi diplomatici comuni e convergenti, in proposte concrete e realistiche, per non restare pure aspirazioni che alimentano frustrazioni e insoddisfazioni o – peggio – finiscono per dare la stura alla demagogia e ai populismi. Si tratterebbe, in fondo, di aggiornare e rinverdire, alla luce dei colossali cambiamenti in atto, quel vecchio motto che ha consentito per molti secoli un felice compromesso tra poteri. A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio.