L’euro ha superato i venti anni, è ormai più che maggiorenne. Nel complesso, il primo esperimento della storia di un’unione monetaria senza un’effettiva, completa unione economica e senza un’unione politica, non può dirsi fallito. Il significato metaeconomico dell’integrazione monetaria è stato rilevante; all’inizio aveva, però, suscitato aspettative di ulteriore significativa evoluzione che non si sono (ancora) realizzate.

La moneta unica ha, tuttavia, consentito di conseguire una condizione di stabilità, di bassi tassi di interesse, rispetto a quelli prima vigenti, di forte agevolazione delle operazioni proprie del sistema dei pagamenti. Soprattutto le operazioni non convenzionali della Bce hanno difeso l’euro, a un certo punto impedendone la disintegrazione, ma nel contempo hanno agevolato il finanziamento del debito degli Stati con l’acquisto dei titoli (particolarmente importante per il nostro Paese), hanno sospinto e accresciuto la liquidità per i destinatari finali, imprese e famiglie, e hanno in qualche modo impedito sia l’inflazione, sia, in questo caso meno bene, la deflazione.

Tuttavia, restano insoluti i problemi indicati, dieci anni prima che si desse vita all’euro in forma solo scritturale, da quel grande Governatore della Banca d’Italia che fu Paolo Baffi, fra i quali quello dell’ “aggiustamento” a carico di altri fattori, in specie del lavoro nei casi di shock asimmetrici in un’area solo monetaria. Dopo Baffi, il Governatore Antonio Fazio aveva ripetutamente messo in evidenza che l’adesione all’euro avrebbe dovuto essere preceduta dalle riforme strutturali tante volte evocate (fino a oggi) per evitare quell’effetto che egli denominò come “bradisismo economico” in base al quale quando le altre economie crescono, quella italiana cresce molto di meno e quando arretrano, la nostra economia arretra assai di più. Un lento scivolamento verso il basso. Si trattava di evitare di apparire un vaso di coccio costretto a viaggiare con vasi di acciaio. Si volle puntare, invece, sul cosiddetto vincolo esterno confidando che la partecipazione all’euro avrebbe indotto comportamenti virtuosi, cosa che si è, invece, realizzata solo molto parzialmente. Comunque, Fazio, pur avendo le sue giuste remore, tuttavia, una volta che il Governo Prodi aveva deciso di voler partecipare alla moneta unica sin dalla prima fase, si adoperò in maniera determinante perché l’Ime, il genitore della Bce, esprimesse il prescritto parere in maniera positiva ribaltando la prima versione che era, invece, negativa.

Senza quel parere positivo, difficilmente l’Ecofin (e poi il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo) avrebbero potuto ammettere l’Italia alla prima fase. Oggi, mentre la Banca centrale si pone l’obiettivo dell’euro digitale e afferma un proprio ruolo nella transizione ecologica e in quella tecnologica, l’architettura dell’Unione resta largamente inadeguata. La piena integrazione economica e fiscale è lungi anche solo dall’apparire, per non parlare dell’unione politica. Le regole, a cominciare dal Patto di stabilità, andrebbero riviste “funditus”, ora che si prende finalmente atto che esse, prodotte da una cieca visione di austerity, hanno aggravato le crisi che si sono verificate in questi anni ma le resistenze dei Paesi cosiddetti frugali sono dure e tenaci. Le normative e i controlli comunitari in materia bancaria andrebbero rivisti sostanzialmente. I “frugali” per ora si oppongono alla messa in comune sia di parte dei debiti pubblici sia dei rischi bancari, pur essendo quest’ultima parte integrante del progetto, fermo a metà, di Unione bancaria. II “Next Generation Eu” viene considerato dai “frugali” come un’iniziativa non ripetibile.

Intanto, si resta in mezzo al guado, perché non si procede nell’integrazione, ma neppure si valorizza il principio di sussidiarietà, alla base anch’esso dei Trattati di Roma, che valorizza ciò che può essere fatto a livello nazionale e non va accentrato. Per non parlare della politica estera e di problemi comuni quale quello delle migrazioni. Si afferma che non di cessione di sovranità si tratterebbe, per far funzionare l’Unione, bensì della compartecipazione all’esercizio della sovranità a un più alto livello, quello europeo. Ma restano solo parole se non sono accompagnate da coerenti misure. Non sarebbe tale quella dell’istituzione del Ministro del Tesoro unico dell’Unione, perché ciò richiederebbe una revisione dell’intera architettura istituzionale, se non vuole essere una misura solo accentratrice. La politica monetaria deve avere un bilanciamento e un confronto nella e con la politica economica superando la zoppìa di organi di cui parlava Ciampi, ma ciò esige un progetto organico. Occorre dare vita a una vera seconda fase dell’Unione.

La pandemia, accanto ad alcuni aspetti positivi dell’azione europea, ha evidenziato ancor più ciò che l’Eurozona e l’Unione potrebbero essere e ora non sono. La Conferenza sul futuro dell’Europa, attualmente in corso, potrebbe essere la via per muovere verso una seconda fase. Ma qui si incrocia il fattore cruciale che è la volontà politica dei Partner che oggi non sembra convergere, in un contesto di coesione, verso più avanzati obiettivi. Eppure la moneta unica non può continuare a far parte di un organismo zoppo. E allora bisogna ricorrere alla “spes contra spem”.