Le “relazioni pericolose”. O, se si preferisce, le convergenze spericolate (e pure parallele). Sono quelle che intrecciano il piano politico nazionale e il livello delle sempre più ravvicinate elezioni europee in un Paese quale il nostro che dà concretezza come pochi alla nozione di campagna elettorale permanente. Nel “momento elettorale” comunitario del prossimo giugno si giustappongono alcune delle faglie su cui si giocheranno il destino e la struttura della società europea dei prossimi decenni e, al medesimo tempo, si ripropongono taluni dei cleavage che hanno letteralmente strutturato la storia politica continentale della modernità.

Si pensi, con riferimento alla prima tipologia, all’indirizzo da dare alle (irreversibili) transizioni – quella digitale, quella energetica e l’ecologica – e alle misure da predisporre per calmierarne gli effetti sociali e ridurne le potenziali iniquità. Oppure al ruolo dell’Unione europea di fronte alla sfida delle autocrazie contro le democrazie liberali in quello che era il Villaggio globale ed è divenuto – dopo l’invasione russa dell’Ucraina e l’escalation muscolare di Cina e Iran – il mondo del decoupling e della deglobalizzazione. E, dunque, quale politica estera e di difesa comune e quale postura tenere nell’ambito dell’atlantismo, e rispetto alle nazioni quinte colonne del putinismo (le “uova del serpente”, o dell’Orso russo) che siedono nel consesso comune.

Ancora, come rifondare il sistema di welfare e il modello sociale europeo che, a dispetto dell’insufficiente consapevolezza in materia, hanno costituito una componente ragguardevole del soft power Ue nei confronti del resto delle (ben più grandi e agguerrite) potenze globali. Mentre, per quanto concerne la seconda casistica, va ricordato che in occasione di questo appuntamento elettorale vediamo ripresentarsi svariate di quelle fratture che maestri novecenteschi della scienza politica come Stein Rokkan e Seymour Martin Lipset avevano identificato alla stregua delle occasioni fondative delle formazioni politiche moderne: da quella «città vs. campagna» (riproposta dalla “protesta dei trattori”) a quella «centro vs. periferia» – evidentissima nelle jacqueries e nelle rivolte dei gilets “gemelli cromaticamente diversi” (gialli e verdi), esplose in Francia contro Emmanuel Macron.
Poste in palio decisive e tensioni che si riverberano anche sulla campagna elettorale in Italia, ma che giungono attutite e secondarie rispetto a una differente agenda delle priorità. Filtrata, giustappunto, dall’interesse nazionale, o per meglio dire dall’interesse particolare dei partiti rispetto alle ripercussioni sugli equilibri della politica nostrana.

In effetti, un tema di diretta derivazione Ue incombe, e interessa in maniera considerevole i leader nostrani, ed è quello del mutamento dei rapporti di forza tra gruppi e famiglie politiche, alla luce dei risultati elettorali, per la nomina della prossima Commissione. Ma si tratta, per l’appunto, di una questione qualificabile in termini di politique politicienne assai più che di issues e policies, di relazioni di potere anziché di contenuti.
Basta scorrere il dibattito politico-mediatico delle scorse ore, fra l’annuncio della fuoriuscita di Federico Pizzarotti da Più Europa (e la sua candidatura alle europee con Azione) e l’improvviso interesse per il quarantennale della Lega, convertitasi negli ultimi anni nella versione nazionalpopulista “per Salvini premier”, ma che costituisce giustappunto la formazione più “antica” presente fra gli scranni del Parlamento italiano dal crollo della Repubblica dei partiti.
«Italia first», insomma. Perché dagli esiti del voto continentale si trarranno indicazioni essenziali sul riequilibrio e il possibile rimpasto dentro il governo di destracentro, sulla composizione dell’inquieto e malfermo “campo largo”, sugli assetti competitivi dei centristi. Beninteso, anche in altri Paesi la lente nazionale e la “provincializzazione” delle elezioni comunitarie hanno un peso significativo. Ma tanto preponderante quanto in Italia, va riconosciuto, “come te nessuno mai”.