E' in isolamento da 20 giorni. La moglie: "Chiediamo solo il trasferimento"
L’ex pentito Luigi Giuliano è in carcere, l’appello disperato: “Mi uccido, non posso stare con i detenuti comuni”

“Nel reparto con i detenuti comuni non ci posso stare, rischio la vita“. E’ il grido disperato di Luigi Giuliano, 48 anni, ex collaboratore di giustizia dopo aver militato nell’omonimo clan che tra gli anni ’80 e ’90 governò nel centro di Napoli. Luigi Giuliano jr è il figlio di Nunzio Giuliano (morto ammazzato 20 anni dopo essersi dissociato dalla camorra), primogenito di Pio Vittorio e fratello di Luigi, colui che è stato ribattezzato ‘o Rre di Forcella. E’ cresciuto in una famiglia nata con il contrabbando e affermatasi nel mondo della criminalità organizzata durante la guerra alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.
Dopo essere uscito dal programma di protezione, Giuliano jr vive da anni a Reggio Emilia dove nel novembre 2020 è stato arrestato dopo aver accoltellato in un negozio di elettrodomestici un uomo per ragioni di natura passionale. Condannato a un anno e otto mesi di reclusione, il 48enne era stato sottoposto agli arresti domiciliari dai quali è evaso lo scorso 6 luglio quando le forze dell’ordine lo hanno sorpreso in un parchetto vicino la sua abitazione.
Trasferito nel carcere di Reggio Emilia, si trova da 20 giorni in isolamento e non vuole andare in cella con altri detenuti. Il motivo? Teme per la sua vita perché in passato è stato collaboratore di giustizia e in carcere queste cose non si dimenticano. Nei giorni scorsi, attraverso la moglie, ha contattato il garante dei detenuti del comune di Napoli, Pietro Ioia, per denunciare quanto accaduto e chiedere di essere trasferito in un altro carcere dove è presente il reparto riservato ai collaboratori di giustizia.
“Deve scontare circa un anno in carcere e chiede solo di essere trasferito perché teme per la sua incolumità” spiega la moglie al Riformista. Luigi Giuliano jr è stato collaboratore di giustizia, così come buona parte dei suoi zii (a partire dall’ex boss Lovegino), all’inizio degli anni Duemila. “Anche se per lo Stato italiano non è più in pericolo, in carcere queste cose funzionano diversamente e chi è stato pentito viene considerato alla stregua di un collaboratore di giustizia attuale” prosegue la donna. “I regolamenti di conti la camorra non li dimentica” aggiunge.
Luigi negli ultimi giorni ha tentato anche gesti di autolesionismo. Nella giornata di domenica 25 luglio si è inferto dei tagli ed è stato trasferito in un cella di isolamento priva di materasso e di altri oggetti considerati pericolosi per la sua incolumità. “Dorme a terra, è disperato. Chiede solo di scontare la sua pena in un posto sicuro, nulla di più” chiarisce la moglie.
Sulla vicenda è intervenuto anche il garante di Napoli Pietro Ioia: “E’ psicologicamente provato, sono in contatto con il garante dell’Emilia Romagna Marcello Marighelli e speriamo di risolvere la situazione quanto prima”.
La storia di Nunzio Giuliano, morto ammazzato 20 anni dopo essersi dissociato
Il percorso di Nunzio Giuliano, nato nel 1948 e morto ammazzato la sera del 21 marzo 2005 in via Tasso, non è stato come quello dei sui cinque fratelli Luigi, Guglielmo, Carmine, Raffaele e Salvatore. Loro sono stati spietati camorristi fino a quando hanno potuto. Poi quando le cose si sono messe male hanno deciso di passare dalla parte dello Stato raccontando quel che sapevano sulla criminalità organizzata di Napoli e provincia in cambio di sconti di pena, protezione e soldi, quelli che vengono garantiti ai collaboratori di giustizia durante e al termine del loro percorso.
Nunzio Giuliano, dopo una giovinezza segnata da piccoli precedenti, sin dall’inizio degli anni ’80, quando l’ascesa dei suoi fratelli, capeggiati da Luigi detto Lovegino (‘o Rre di Forcella) era sotto gli occhi di tutti, decise di defilarsi, di mettersi alle spalle un cognome pesante e iniziare un vita lontano da Forcella e dalla camorra. Decise così di trasferirsi nel quartiere Chiaia con la moglie e i due figli, Pio Vittorio e Luigi (Gemma nascerà invece nel 1987) dove li “costringeva” ad andare a scuola e a stare lontano dall’ambiente contaminato di Forcella.
“La mattina prima di scendere – raccontò anni fa il figlio Luigi Giuliano a VocediNapoli.it – controllava se io e mio fratello avevamo messo il profumo e se nelle tasche dei pantaloni c’erano dei soldi. Lo faceva per capire se la nostra intenzione era quella di andare a scuola o dai nostri zii e cugini a Forcella dove potevamo fare quello che volevamo, anche solo giocare con le moto”.
Luigi Giuliano all’epoca era adolescente e già subiva il fascino criminale della sua famiglia. “Mio padre era l’unico che ha sempre provato a portarci sulla retta via. Non amava la musica neomelodica e non voleva che parlassimo in napoletano. Ha provato in tutti i modi a farci crescere con la schiena dritta. Da Forcella ci ha portati a vivere in un quartiere borghese come quello di Chiaia iscrivendoci alla medie alla scuola Tito Livio. Poi le cose andarono diversamente perché venne arrestato nel 1983, incastrato dalla dichiarazioni dei pentiti”.
“Ricordo ancora – racconta Luigi – che il giorno in cui la polizia si presentò a casa nostra per arrestare mio padre io ero quasi felice. Vi sembrerà strano, mi sentivo liberato, scarico, consapevole che non sarei più stato obbligato ad andare a scuola. Potevo così andare dai miei zii a Forcella. A distanza di anni – aggiunge – ho capito quello che lui voleva trasmetterci e oggi non posso far altro che essergli grato per i suoi insegnamenti. Certo, li ho recepiti in ritardo ma adesso, dopo anni in carcere e un periodo da collaboratore di giustizia, ho iniziato una nuova vita”.
Nunzio Giuliano esce dal carcere dopo circa tre anni, nel 1987, e nei mesi successivi, il 10 dicembre, muore per overdose il primogenito Pio Vittorio. Aveva 17 anni. Lo trovarono nel bagno dell’abitazione della nonna con l’ago ancora conficcato nel braccio. Fu la mazzata più grande. Durante il periodo di detenzione Nunzio aveva provato in tutti i modi di farlo smettere, rivolgendosi anche a Don Riboldi, il vescovo di Acerra autore di mille battaglie a favore della legalità e della giustizia. Ma tutto fu inutile. Pio Vittorio andò incontro a una morte annunciata per chi sin da piccolo sceglie quella strada. Nonostante la giovane età aveva un figlio di 2 anni che aveva chiamato come il padre.
Furono giorni burrascosi culminati con il prelievo forzato della salma di Pio Vittorio dal vicino ospedale Ascalesi per riportarla a casa dei nonni per la veglia funebre. L’allora capo della squadra mobile di Napoli, Matteo Cinque, si recò a casa del nonno del 17enne e utilizzò le parole giuste per farsi riconsegnare il corpo per sottoporlo all’autopsia disposta dall’autorità giudiziaria. Il giorno dei funerali in migliaia si presentarono davanti alla chiesa egiziaca a Forcella. Non mancarono momenti di tensione che lo stesso Nunzio Giuliano fece rientrare.
“Il gruppetto di fotografi – scrive Renato Caprile – in un articolo pubblicato su Repubblica il 13 dicembre 1987 – che non è riuscito a guadagnare il sagrato è pronto ad usare gli attrezzi del mestiere. Ma la madre di Vittorio ha un gesto di stizza. E subito un paio di guardaspalle partono minacciosi in direzione dei paparazzi. Volano parole grosse. Ma l’ intervento di Nunzio Giuliano, 38 anni, il padre di Vittorio, calma gli animi. Lasciateli in pace ordina Nunzio sono qui per lavorare. E’ un loro diritto, capito?”.
Dopo l’uscita dal carcere, Nunzio venne condannato a tre anni di soggiorno obbligato in un paese del Veneto. Fu in quel periodo che diede inizio alla sua battaglia contro la droga con tanto di manifesti affissi per le vie del centro di Napoli. Poi iniziò a girare per le scuole cittadine raccontando ai giovani la propria esperienza, partecipò a numerose iniziative sociali anche in altre regioni italiane e venne invitato in diverse trasmissioni televisive. Il suo “verbo”, la sua nuova vocazione, vennero sempre visti con sospetto dall’Antimafia e più in generale dallo Stato italiano che non si “fidava” di una persona cresciuta in un ambiante malavitoso da cui si è però allontanato prima che compisse 30 anni e iniziasse l’ascesa criminale dei suoi fratelli. Eppure i temi affrontati negli anni ’80 e ’90 da Nunzio Giuliano oggi – dopo 30 anni – sono più che mai attuali.
Dopo la sua morte (di cui non si conoscono, a distanza di 13 anni, mandanti ed esecutori materiali) venne pubblicato “Diario di una coscienza“, una raccolta di considerazioni dello stesso Giuliano:
“Questo non è un libro su Nunzio ma intende essere il libro di Nunzio, quello che tante volte lui stesso era stato sul punto di scrivere, ma che per tanti motivi non aveva mai visto la luce. Il compito che Nunzio ha lasciato a noi è stato dunque quello di realizzare un testo di questo tipo, ricco di riflessioni vive, composte in maniera del tutto originale, fatte da un uomo che ha affrontato la sua esistenza come un viandante affronta un viaggio che dura tutto l’arco di una vita. Niente di residuale, ma il pensiero lucido di chi ha saputo emergere dalla sua condizione, indirizzando la propria riflessione su temi che spaziavano dal sociale al politico, dal religioso al filosofico […] L’abitudine di Nunzio di annotare tutto su foglietti sparsi, che spesso rileggendo metteva da parte, e alcuni frammenti di interviste, ci hanno consentito di farlo parlare quasi sempre in prima persona e di sottrarre all’oblio i suoi pensieri”. (dalla prefazione di Maria Rosaria Rivieccio e Roberto Marrone).
Lo scorso 21 marzo 2018 a Nunzio Giuliano è stata intitolata una panchina all’interno del Real Bosco di Capodimonte di Napoli. La sua famiglia ha voluto ricordarlo così, partecipando al progetto “Racconta la tua storia al Bosco di Capodimonte. Adotta una panchina, un albero o una fontanella” lanciato dal direttore del bosco Sylvain Bellenger in collaborazione con l’associazione Amici di Capodimonte onlus.
“Ragazzi ribellatevi ad un destino scritto da altri. Studiate! La cultura è libertà”. Questa la frase, che Nunzio Giuliano ha ripetuto migliaia di volte nel corso della sua vita, presente sulla targhetta commemorativa installata su una panchina che si trova nei pressi di un campo di calcio presente all’interno del Bosco di Capodimonte.
© Riproduzione riservata