Il 20 maggio lo Statuto dei Lavoratori ha festeggiato mezzo secolo di vita. Nata nella tumultuosa “stagione dei diritti” iniziata con il ‘68 (un movimento che la Destra politica e parlamentare non seppe capire e interpretare), la legge 300/70, ideata da Giacomo Brodolini e confezionata da Gino Giugni, ha subíto numerose modifiche da parte del legislatore; una delle ultime incursioni ha purtroppo cancellato l’articolo 18, un caposaldo che aveva superato indenne persino un referendum abrogativo. In cinquant’anni tante cose sono cambiate: quando il Parlamento varò la norma – senza il consenso del Pci che era interessato ad un ruolo del partito nelle fabbriche piuttosto che alle libertà sindacali e dei lavoratori -, la Apple era ancora in mente Dei e un articolo come questo i più fortunati avrebbero potuto digitarlo su una “Olivetti Studio 45”.

Il cellulare sarebbe arrivato quasi vent’anni dopo, poco prima della diffusione del World Wild Web e della terza rivoluzione industriale generata dall’introduzione massiccia, in tutti i processi produttivi, dell’elettronica, delle telecomunicazioni e dell’informatica Vissuto dagli industriali italiani come il paradigma dell’inciampo alla “libera intrapresa”, lo Statuto ha rappresentato, invece, un prezioso compendio alla contrattazione e una leva formidabile per tutte quelle conquiste del mondo del lavoro che solo i cosiddetti “insider” potevano ottenere; conquiste che faticosamente ma inevitabilmente tracimavano, con l’intervento della magistratura, nella sempre vasta platea di “outsider”, di irregolari. Negli ultimi vent’anni una pubblicistica superficiale o, peggio, interessata, è però riuscita a far credere che i diritti siano “finiti”, cioè delimitati, e quindi da suddividere (invece che da estendere e moltiplicare); ma, soprattutto, ha istillato il sospetto che essi rappresentino dei “privilegi” a esclusivo vantaggio della “casta” dei “garantiti”, scatenando una guerra tra poveri che ha indebolito il mondo del lavoro e favorito l’avvento di una legislazione che rischia di far apparire l’Italia – come direbbe Arcuri – una sorta di Luna Park dei liberisti.

Immagino che questa possa apparire una affermazione esagerata; bene, ammetto che ho utilizzato una iperbole, ma assicuro il lettore che in pochi altri Paesi industrializzati europei esiste una regolamentazione del diritto di sciopero più restrittiva della nostra, una permanente violazione del diritto alla privacy, una attenzione inferiore alla sicurezza e alla salute dei lavoratori, una diffusione così alta del fenomeno del caporalato, un ricorso ai contratti pirata più intensivo, una differenza di genere così evidente e conclamata. Una Repubblica “fondata sul lavoro” non dovrebbe esibire simili performance ma dovrebbe interrogarsi sull’opportunità – per me il bisogno – di mettere mano a un aggiornamento della normativa a tutela della dignità del lavoro e del lavoratore.

Dopo mezzo secolo è dunque giunto il momento di fare il punto della situazione mettendo assieme organicamente, in un nuovo Statuto, quanto di buono è stato fatto, incluse – all’esito dei lavori in corso – le nuove norme sulla rappresentanza e sul salario minimo. Non solo: credo che andrebbe sancito anche il diritto del lavoratore a sapere che, trascorsi vent’anni tra scuola e formazione e quaranta al lavoro, si possa trascorrere l’ultimo quarto delle propria vita in pensione sottraendo, almeno in linea di principio (perché qualsiasi legge può essere cambiata), il patto del cittadino con lo Stato agli umori del legislatore di turno. Il nuovo Statuto dovrebbe contenere pochi ma inderogabili ulteriori elementi chiave sulla libertà di opinione, sul diritto alla privacy, sulla parità di genere, sul godimento delle ferie, sui diritti sindacali, sulla tutela dal licenziamento senza una giusta causa.

Ancora, andrebbe sancito il diritto alla “disconnessione” ed a qualsiasi forma di sfruttamento della lavoratrice e del lavoratore, indipendentemente dalla tecnologia o dalla forma contrattuale utilizzata. Il resto lo dovrebbe fare la contrattazione tra le parti sociali che uscirebbe rafforzata e ancor più legittimata da una nuova e più credibile organizzazione della rappresentanza. È probabile che un innalzamento dell’asticella dei diritti faccia preoccupare quanti sino ad oggi hanno spinto per la deregolamentazione del rapporto di lavoro in nome di una flessibilità che a volte è sconfinata nell’arbitrio ma che, soprattutto, non ha prodotto sull’occupazione gli effetti espansivi attesi.

La drammatica emergenza che ci stiamo lasciando alle spalle ha però restituito allo Stato una centralità ed un ruolo che le imprese non possono riconoscere soltanto in funzione degli aiuti che ricevono, e ha messo fuori gioco quanti pensavano che a regolare l’economia – e dunque anche il lavoro – bastasse il libero mercato. Non è così e, del resto, se ne era già accorto anche un cattolico liberale come Alessandro Manzoni che, pur criticando il calmieramento del prezzo del pane imposto dal Cancelliere Ferrer (ricordate il Cap.XIII: «veniva a spender bene una popolarità mal acquisita»?), concluse I Promessi Sposi con un Renzo Tramaglino imprenditore nella bergamasca grazie ad una legge che regolava il costo del lavoro…