C’è già una sentenza di condanna dello scaricabarile adottato anche sabato scorso dal Centro di coordinamento del soccorso marittimo italiano (l’Mrcc di Roma) che non è andato in aiuto del gommone segnalato con 47 persone in zona Sar libica con l’argomentazione di aver esortato i libici a farlo. l libici non sono andati, la guardia costiera italiana è rimasta a guardare – si è limitata a delegare a navi mercantili il recupero, molto complicato per i non esperti – e 30 persone sono morte.

Il Tribunale di Roma ha già stabilito che questo modo di operare, attese prolungate, rimpalli di responsabilità (mentre il tempo passa inesorabilmente) è contrario alla legge. Le autorità marittime non possono sottrarsi dall’obbligo di salvataggio, da realizzare più velocemente possibile, di una barca in difficoltà in zona Sar (zona di ricerca e soccorso) di un altro paese nascondendosi dietro al fatto che hanno delegato le autorità di quel paese a farlo. I due interventi si devono semmai sommare. Vige il principio – chiaro a qualsiasi persona di buon senso – che in un’operazione di salvataggio in mare non si deve perdere tempo. Bisogna cooperare, non demandare ad altri. E se gli altri non arrivano si deve andare anche da soli. L’ha ribadito il Tribunale di Roma il 15 dicembre scorso nella sentenza sul naufragio dell’11 ottobre 2013 in cui morirono 286 persone. Tra loro c’erano almeno 60 bambini.

Dieci anni dopo, quando cioè i reati contestati erano prescritti – risultato del ping pong tra un tribunale e un altro- i giudici hanno deciso che gli imputati sono responsabili dell’accaduto. Non sono stati condannati perché i reati contestati erano prescritti, ma i giudici hanno stabilito che il responsabile della centrale operativa del Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto con compiti relativi al soccorso marittimo, Leopoldo Manna, e il capo sezione della sala operativa del Comando in capo della squadra navale della Marina Militare, Luca Licciardi, sono responsabili del rifiuto di atti di ufficio (art. 328, c.p.) e di omicidio colposo (art. 589, c.p.). Ecco i fatti.

Una settimana dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 davanti all’isola di Lampedusa, arrivano all’Mrcc di Roma nel giro di cinque ore sei telefonate (sei!) di disperata richiesta di soccorso. È un un medico siriano a chiamare. È a bordo di una barca partita dalla Libia insieme ad alcune centinaia di persone. Stanno imbarcando acqua. L’uomo descrive nel dettaglio una grave emergenza: persone ferite, guasti al motore, moltissimi bambini a bordo. Ci sono in zona navi militari italiane. La “Libra”, la più vicina, è ad appena venti miglia di distanza dalla barca a rischio naufragio. Non vengono coinvolte. L’Mrcc non coordina il soccorso. La barca è in zona Sar maltese. A causa del mancato intervento delle autorità italiane e a una trasmissione non completa di informazioni alle autorità maltesi, la barca non viene soccorsa in tempo. Si rovescia. Tra le onde muoiono 286 persone.

Il processo arriva al Tribunale di Roma dopo il trasferimento da Agrigento e dopo due richieste della Procura di archiviare le indagini. La sentenza chiarisce quali sono gli obblighi operativi dell’Mrcc quando riceve una chiamata di emergenza. Lo fa sulla base dei piani interni e alla luce delle norme di diritto internazionale. I giudici dicono in sostanza che gli obblighi di soccorso e intervento del Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo non si esauriscono quando l’evento di pericolo avviene al di fuori della zona Sar italiana. Al contrario questi obblighi sussistono pienamente anche quando l’autorità di un altro paese si assume formalmente il coordinamento delle operazioni.

Scrivono i giudici: “In particolare, fuori delle acque territoriali e della zona Sar di competenza italiana, è imposto all’ Mrcc di tenere i contatti con i centri di coordinamento del soccorso degli altri stati (…) e di intervenire secondo la scelta dei mezzi più idonei al relativo svolgimento che è prerogativa del Mrcc responsabile e richiedente. In tal caso alle Autorità italiane spetta, oltre a trasmettere tutte le informazioni acquisite, il compito di fornire a richiesta l’assistenza all’Autorità procedente ed in particolare mettere a disposizione navi, aeromobili, personale o materiale (art. 3.1.7 conv. Sar). Perciò stesso la “sicurezza pubblica” non è soltanto riferibile ad aree di pertinenza del nostro Paese ovvero rientranti nella nostra competenza Sar e da garantirsi all’interno dell’ambito territoriale (e giurisdizionale) italiano, ma rappresenta, piuttosto, il bene/interesse tutelato penalmente sia che si assuma il coordinamento delle operazioni di salvataggio, sia che si debba prestare assistenza ai coordinatori degli altri Stati richiedenti”.

Il Tribunale di Roma dice anche che la corresponsabilità eventuale delle autorità di un altro paese, Malta in quel caso, non fa venir meno la responsabilità penale delle figure che hanno comunque obblighi di garanzia, come nel caso dei due imputati. Sulla strage dei bambini dell’11 ottobre del 2013 si è espresso anche il Comitato delle nazioni unite per i diritti umani. Il 21 gennaio 2021 ha condannato l’Italia per la violazione degli articoli 2 e 6 del Patto dell’Onu per i diritti civili e politici, che proteggono il diritto alla vita di ogni persona. Anche l’Onu ha rilevato che le chiamate di richiesta soccorso e la presenza delle navi italiane nelle vicinanze hanno determinato l’insorgere del nesso giurisdizionale per l’Italia anche se il naufragio è avvenuto in acque internazionali e nella zona Sar di un altro paese. L’eventuale corresponsabilità maltese, quindi, non ha cancellato la responsabilità delle autorità italiane.

Così come l’aver chiamato le autorità libiche – e agli ufficiali dell’Mrcc di Roma non sfugge l’evanescenza del concetto stesso di autorità libica, figurarsi della Sar libica – e l’aver ordinato ai mercantili nell’area di andare verso la barca per fare un’operazione di ridosso per proteggerla dalle onde, non ha sollevato l’Mrcc di Roma sabato scorso dall’obbligo di andare in soccorso dei migranti. Tanto più che i mercantili avevano avvisato di non essere in grado di fare un trasbordo delle persone in sicurezza.