Sembra quasi una strategia, o forse lo è proprio, quella di fare confusione tra acque territoriali, acque internazionali, zone di competenza per il soccorso in mare, regole di ingaggio e quant’altro. All’insegna del “è colpa di qualcun altro”, quando la realtà ti insegue, implacabile, e ti butta in faccia i morti, chi scappa butta in mezzo di tutto: è colpa delle vittime, è colpa dei parenti, è colpa dei libici, è colpa del mare. Basta che non sia colpa nostra. Anche questa volta, come per la strage di Cutro, nessuno dei governanti che dica: potevamo e dovevamo evitarlo. Trenta vite umane sono state perse, e per questo non c’è rimedio. Ma vale per le persone per bene. I comandanti veri, non abbandonano la nave per primi, anzi. Si fanno carico fino all’ultimo della situazione, si prendono l’onere di quello che non ha funzionato, sempre. Ma qui di comandanti se ne vedono pochi.

Come per la strage di Cutro, la strage dei bambini come verrà ricordata, anche nel caso di questo naufragio si cerca di scaricare le responsabilità, che sono evidenti visto il preavviso di trenta ore a disposizione delle autorità italiane, europee, mondiali, terracquee, per decidere se salvare o no quelle vite. Salvarle con tutte le forze, in ogni modo, provandoci fino all’ultimo. Invece si è deciso diversamente. L’alibi stavolta è la “zona Sar libica”. Che semplicemente non esiste, è una pura finzione messa in piedi la prima volta nel 2017, grazie all’intervento dell’allora governo italiano (Gentiloni-Minniti), al quale serviva una cornice formale per trasformare la Libia in una vera e propria “milizia delle coste e del mare” contro i migranti che dovevano essere trattenuti lì, e non raggiungere le coste italiane ed europee. Un’altra “tragica furbata” del Patto Italia – Libia, una delle cose più infami prodotte dalla classe politica italiana.

Dopo una prima bocciatura nel 2017, ricevuta dall’IMO di Londra, ente al quale uno Stato presenta la sua “autodichiarazione di zona Sar”, cioè di “responsabilizzazione per la gestione del soccorso in mare”, nel 2018 Tripoli ha potuto fregiarsi di averne una tra le più grandi per estensione, messa in piedi grazie ai mezzi e agli uomini della Marina militare italiana, presenti appositamente lì, con due navi (la Capri e la Caprera) e una missione votata dal Parlamento Italiano, la “Nauras”. La prima non accettazione dell’IMO ( International Maritime Organization) era infatti dovuta al fatto che il governo di Tripoli non avrebbe potuto gestire alcunché, mancando di mezzi, strutture logistiche, formazione. Con l’investimento italiano, che fornisce soldi, motovedette, logistica, e su forte pressione dell’Europa, l’Imo si piega e “accetta” l’autoattribuzione. Perché innanzitutto la zona Sar è questo: una autodichiarazione che gli stati rivieraschi presentano, e se nessun altro stato ha qualcosa in contrario, rimane lì, sul registro Imo delle zone sar. Solo uno stato può fare ricorso per mettere in discussione la sua ufficializzazione. E nessuno, ovviamente, l’ha fatto.

La zona Sar non c’entra niente di niente con la zona di sovranità di uno stato, la quale viene esercitata entro le 12 miglia dalla costa, e al massimo nelle acque di contiguità e cioè entro il limite delle 24. Avere una grande zona Sar da gestire, dovrebbe vuol dire, secondo la Convenzione di Amburgo, avere la capacità tecnica e operativa innanzitutto, per poterlo fare. Per rendere possibili ed efficaci gli interventi di soccorso in mare. Avere ad esempio, un centro di coordinamento “MRCC”, avere una flotta navale ed aerea, ma anche agire in nome del soccorso in mare, che come ben ribadito “termina solo quando i naufraghi sono sbarcati in un Pos ( Place of Safety)”, un posto sicuro. Ora, è chiaro che il governo di Tripoli, non ha nessuna di queste caratteristiche. È in dubbio persino la sua qualifica di “stato unitario”, figurarsi se può garantire il vero soccorso a qualcuno.

Di sicuro non ha un Pos da offrire a chi recupera dal mare. Questo nemmeno secondo le Nazioni Unite, da cui Imo dipende. E nemmeno secondo sentenza della Cassazione italiana si può riportare in Libia qualcuno. Ne sa qualcosa il comandante della Asso 28, nave della compagnia napoletana. Ma allora questa zona Sar libica che cos’è? È una frontiera illegale. Una frontiera liquida, in mare, dove poter far agire una polizia, capace di catturare e riportare indietro donne, uomini e bambini che tentano di fuggire dalla Libia. Si utilizza “politicamente” la zona Sar, per cercare di ovviare alla chiara delimitazione che esiste tra il diritto sovrano statuale, e il diritto internazionale. È ancora, la logica del “law enforcement”, fatta prevalere illegalmente sulle Convenzioni internazionali di Amburgo – sul soccorso in mare – e di Ginevra – sui rifugiati e profughi. E sul “diritto del mare”. Il rischio che il Mediterraneo diventi una “terra di nessuno” è altissimo. Un luogo dove se vengono fatte morire persone che non sono né bianche né ricche, non è colpa di nessuno, appunto.