“Signor Presidente, esprimo parere contrario su tutti gli emendamenti presentati all’articolo 4”, così la senatrice Bongiorno, relatrice di maggioranza al decreto-legge anti-rave, ha calato la scure non solo sulle ragionevoli proposte di conversione delle semilibertà in affidamento in prova al servizio sociale per coloro che abbiano goduto delle licenze straordinarie durante l’emergenza Covid, ma anche sulla semplice proroga di queste ultime. Ancor più laconico, se possibile, il sottosegretario alla giustizia Ostellari: “Signor Presidente, esprimo parere conforme a quello della relatrice”.

Si compie così una palese ingiustizia: detenuti di lungo corso, da anni in regime di semilibertà (che comporta lo svolgimento di un’attività lavorativa esterna e una limitata libertà di movimento in città, ivi compresa la possibilità di cenare a casa con la famiglia prima di rientrare a dormire in carcere), condannati che per due anni e mezzo hanno goduto di una licenza straordinaria che gli consentiva di dormire a casa o in strutture di accoglienza (lasciando liberi spazi nelle carceri nella pandemia), persone che hanno scrupolosamente osservato le prescrizioni impartitegli dal giudice di sorveglianza (e men che meno hanno commesso reati), condannati – cioè – che hanno mostrato oltre ogni ragionevole dubbio il loro positivo reinserimento nella società, dal primo di gennaio dovranno ripresentarsi a dormire in carcere, costringendo l’Amministrazione penitenziaria a liberare gli spazi da loro precedentemente occupati e ora destinati ad altre funzioni.

Off records, qualcuno più loquace in ambienti di governo dice che, non essendoci più stato di emergenza covid, non si giustificano più le licenze straordinarie. Ma il punto non è questo. Quella emergenza, bene o male, toccando ferro, sembra essere passata, ma oggi si chiede altro: un’interpretazione fedele alla Costituzione dell’ordinamento penitenziario. Se la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, se la rieducazione deve essere laicamente intesa nel senso del suo reinserimento in condizioni di autonomia e di legalità nel contesto sociale, non è ammissibile una regressione di fatto nel trattamento penitenziario che non sia conseguente a una infrazione penale o disciplinare, a un tradimento, cioè, da parte del condannato, dell’impegno preso con il giudice di sorveglianza nell’esecuzione della misura alternativa o nel godimento del beneficio.

Altrimenti il rischio è che il tradimento (uso deliberatamente e consapevolmente questa parola) del rapporto fiduciario si rovesci a carico dello Stato e delle sue istituzioni, che ignorano la correttezza tenuta dai condannati e l’affidabilità dimostrata, in questo caso non in uno o due giorni di permesso, o in un’occasionale licenza più lunga, ma in due anni e mezzo di pena scontata integralmente fuori dal carcere. Il principio della progressività del trattamento penitenziario (non solo nel senso che si fa un passo alla volta, ma che l’uno e l’altro è auspicabile che si facciano nella stessa direzione) impone che non vi sia una “retrocessione” immotivata nel percorso penale delle persone condannate.

Dalla laconicità di quelle dichiarazioni di voto riportate in incipit, non possiamo sapere se maggioranza e governo abbiano votato contro gli emendamenti di proroga o di conversione delle licenze straordinarie per convinzione giustizialista, come qualcuno ama dire, o in astio ai proponenti dell’opposizione (il gruppo del Pd), certo è che ora sta a loro, a Governo e maggioranza, mostrare di avere consapevolezza dei problemi del carcere e rispetto per la Costituzione e i principi fondamentali dell’ordinamento penitenziario. Se non gli sono piaciuti quei pur sacrosanti emendamenti dell’opposizione, trovino loro il modo di rimediare alla palese ingiustizia che si compierebbe alla fine dell’anno.

*Portavoce della conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà