La seconda conferenza, indetta ieri da Macron, per un confronto con chi non c’era alla prima – quella in presenza di lunedì – ha avuto fin da subito il sapore di un tentativo maldestro di aggiustare una stonatura diplomatica. Un po’ come la festa della bella di classe fatta per i compagni esclusi dal suo diciottesimo. Mentre era in corso la triangolazione di attacchi Trump-Zelensky-Putin, all’Eliseo arrivava il presidente rumeno, Ilie Bolojan, il solo a stringere la mano al leader francese. Gli altri 18 Capi di Stato e di governo europei, più il premier canadese, Justin Trudeau, erano collegati da remoto. Come già successo lunedì, poco è trapelato da questa “call”.

Macron inefficace, altro che policy maker

Per quanto mossi da buona volontà, gli sforzi di Macron, di confermarsi come policy maker capace di fronteggiare Trump, avviare un processo di pace in Ucraina in cui al tavolo ci siano Kyiv e l’Europa e perfino proporre una roadmap per la competitività europea, si stanno rivelando inefficaci. È il problema che ha esposto Draghi. Chiunque si muova in autonomia non fa bene all’Europa, perché a dettare tempi e agenda dovrebbe essere Bruxelles. La quale o non fa, oppure sembra muoversi senza la reale consapevolezza di quello che le sta succedendo intorno. È il caso delle ultime interlocuzioni con il Canada. Dopo l’annuncio dei dazi da parte Trump, Ursula von der Leyen e António Costa hanno incontrato Trudeau, per discutere strategie comuni in risposta alle pressioni commerciali Usa.

Il confronto riguarda la collaborazione su minerali critici, l’esportazione di petrolio e gas verso l’Europa. Sono buone intenzioni che richiedono tempi più o meno lunghi di realizzazione. Ricordiamoci che, invece, alla Casa Bianca c’è un signore che si muove con un pennarellone nero in mano e cambia le regole dell’economia globale a colpi di ordini esecutivi. Nel frattempo, in Russia Putin si comporta già quasi come il vincitore del conflitto. In un’Europea che subisce attonita questi gol, ognuna delle 27 capitali degli Stati membri, non rinuncia al suo spazio sotto i riflettori. Sia in fatto di guerra in Ucraina, sia su come affrontare le sfide economiche.

Il problema è che ciascuna cancelleria ha le sue buone ragioni. Roma si è detta perplessa al summit di Parigi perché esclusivo. E insiste a tenere aperto un dialogo con gli Usa in nome dell’atlantismo. Non ha tutti i torti. Per Scholz, a Berlino, un contingente di pace è prematuro ed è irritante parlarne. D’altra parte, Friedrich Merz, che dovrebbe succedergli, ha espresso una posizione ulteriormente differente. Il candidato della Cdu-Csu sarebbe dell’idea di seguire la linea Jean-Claude Juncker nei rapporti con Trump. Nel 2018, l’allora presidente della Commissione Ue riuscì a evitare dazi punitivi sull’export negoziando concessioni strategiche (importazioni di soia e Gnl). Merz punta a usare il nostro peso economico (450 milioni di consumatori) facendo leva sulle dinamiche commerciali.

Il rebus truppe da inviare in Ucraina

A questa fermezza fa da contraltare l’ambiguità sull’inviare truppe o meno in Ucraina. Cosa si può obiettare a una Germania prossima al voto? La guerra non è argomento di campagna elettorale in Europa dal 1945. C’è poi Madrid. La più intransigente nei riguardi di Trump e nelle modalità di ripresa economica del continente – per Sanchez il Green Deal va implementato più che rivisto – ma è anche chiara nell’evitare di mandare propri uomini a combattere.

Nel giro, merita includere anche Londra? Sì, visto che Starmer era a Parigi lunedì e che la prossima settimana sarà a Washington. Ma così si aggiunge un ulteriore prospettiva. Ovvero quella della seconda forza Nato per spese militari (dopo gli Usa). La prima potenza nucleare in Europa, pari grado alla Francia. E con un expertise di peacekeeping senza pari. Più che un’Europa unita sembra il Congresso di Vienna. Fatte salvo alcune differenze…