Un’altra vittima, un’altra giovane. Si chiamava Mahak Hashemi, aveva 16 anni. È morta a Shiraz, la sua città, nel sud dell’Iran, per le percosse subite dagli agenti di sicurezza perché usciva da settimane senza velo: nel pieno della ribellione indossava al suo posto un berrettino da baseball. Un gesto simbolico, a supporto della rivoluzione in corso nel suo Paese, quella dei giovani contro il regime e in memoria di un’altra giovane uccisa, Mahsa Amini.

Hashemi è la vittima numero 416 tra tutti coloro che protestano contro il regime. Il 24 novembre è uscita da casa senza farvi più ritorno. È morta irriconoscibile, col volto deturpato dalle botte della polizia e la schiena spezzata dalle bastonate. Le autorità ne hanno proibito il funerale.

Nella città di Hashemi, Shiraz, dove la protesta infiamma le strade come nel resto dell’Iran, è stata scattata una delle foto simbolo del movimento di protesta in memoria per Mahsa Amini: quella del bacio tra due manifestanti in mezzo alle auto incolonnate. A Shiraz, Hashemi viveva già orfana di madre, con il padre e due sorelle minori di cui si occupava. Era sparita per 48 ore. Poi a casa arriva la telefonata, il padre deve recarsi in obitorio per riconoscere due cadaveri senza nome, e uno era quello della sua Mahak.

I numeri della protesta sono esorbitanti: gli arresti superano i 14 mila, e le vittime 416, conteggio tenuto non dalle autorità ma da media indipendenti e ong, anche se la polizia ha parlato dell’ennesimo “incidente”. Incidente simile a quello che ha ucciso Mahsa Amini a settembre, colpevole anche lei di non aver indossato correttamente il velo. Sono passati due mesi e mezzo e la protesta — al grido di “donna, vita, libertà” il cui eco risuona anche negli stadi di Qatar 2022 — non si è fermata. I giovani iraniani chiedono la fine della dittatura, fino a che, come dice Alessandro Borghi interpretando Stefano Cucchi in Sulla mia pelle: “Le scale smetteranno de menacce.

Riccardo Annibali