Alla Prima Presidente della Suprema Corte di Cassazione, Margherita Cassano, abbiamo chiesto una riflessione sulla sua nomina, sui diritti fondamentali e su come essi siano correlati alla questione di genere.

Nel marzo 2023, a 60 anni dalla legge che ha consentito l’accesso delle donne in magistratura, lei è stata nominata Primo Presidente della Corte di Cassazione. La prima volta che una donna è chiamata a ricoprire questo ruolo. Che significato ha avuto per lei questa nomina?
Non lo considero un traguardo individuale perché non sono abituata a concepire la mia attività come un cursus honorum ma come un servizio; quindi, considero questa nomina un traguardo collettivo di tutti coloro che, negli anni, si sono impegnati per l’effettiva attuazione del principio di parità.
La maggiore attenzione alla presenza femminile in magistratura è tema certamente connesso all’effettiva attuazione dello Stato di diritto. Sono convinta che la diversità e la pluralità dei punti di vista nelle diverse prospettive sia un’occasione preziosa di arricchimento per la giurisdizione e garantisca anche un risultato qualitativamente più alto proprio perché tiene conto delle diverse sensibilità.

I numeri però non confortano. Il rapporto del marzo 2024 dell’Ufficio statistico del CSM sulla distribuzione per genere in magistratura segnala come, nonostante il 56,2% dei magistrati sia donna, nella distribuzione degli incarichi direttivi non vi sia parità ma, anzi, netta sperequazione dal momento che circa il 71% è affidato a uomini.
Il dato deve essere letto in diverse prospettive. Prima di tutto, il numero delle donne con incarichi semidirettivi e direttivi nel settore giudicante è significativamente più alto rispetto a quello del settore requirente, ciò significa che la presenza femminile è influenzata dalla diversità delle funzioni che si vanno a esercitare. Ancora più significativo, a conferma di questa impostazione, è il dato relativo alla maggiore presenza delle donne negli Uffici minorili. Altro profilo sul quale si impone una riflessione è se la minore presenza delle donne in incarichi direttivi sia stata in qualche modo condizionata dalle nuove regole introdotte dalla riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006, confermate sostanzialmente nel 2022, che pongono dei limiti più rigidi nel passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti nello stesso territorio, poiché le nuove regole incidono sulla mobilità delle donne che tradizionalmente sono destinatarie di un carico di lavoro non soltanto squisitamente giudiziario ma anche familiare. Sarebbe quindi interessante verificare se ci sia stata in partenza una domanda paritaria di partecipazione di donne e uomini, oppure se le donne si autoescludano non proponendo neppure domanda per incarichi direttivi e semidirettivi poiché ciò non si concilia con le loro contemporanee attività di cura e di assistenza all’interno della famiglia. Se così fosse, sarebbe necessario riflettere sulla opportunità di misure da adottare per eliminare ostacoli che possano incidere sulle legittime aspettative di una donna magistrato a maturare diverse esperienze nel proprio ordine giudiziario. Bisogna però riconoscere che l’assetto complessivo ordinamentale della magistratura è molto avanzato e consente alla donna, soprattutto nei primi anni di vita del bambino, di conciliare attività lavorativa e impegni familiari, prevedendo altresì analoga duttilità organizzativa anche per il magistrato che voglia chiedere un congedo parentale. Da questo punto di vista, la condizione della donna magistrato è ben più tutelata rispetto a quella delle libere professioniste come le avvocate.

La sua riflessione è così vera che, come lei ricorderà, l’introduzione nel nostro codice di rito del legittimo impedimento per maternità è recentissimo: solo nel 2017, grazie all’impegno dell’allora Commissione Pari Opportunità dell’Unione delle Camere Penali Italiane, l’art. 420 ter cpp è stato modificato con l’aggiunta del comma 5 bis. Nel suo discorso di insediamento, lei ha ricordato le “magnifiche otto”, le prime magistrate ad indossare la toga nel 1965. Con uno sguardo alla storia ma anche con la sua sempre grande proiezione verso il futuro, quale dovrebbe essere, a suo avviso, lo spirito che anima le giovani generazioni di magistrate, oggi sempre più numerose?
Il mio auspicio come Primo Presidente della Corte di Cassazione è che vi sia una base comune di valori propri dell’ordine giudiziario condivisi da donne e uomini magistrato. Sono i princìpi dello Stato di diritto, come previsti nella nostra Costituzione, il presupposto dell’impegno comune delle donne e degli uomini magistrato per assicurare un giusto processo con la garanzia dell’effettività dei diritti di difesa nelle varie scansioni procedimentali e che sappia coniugare tempi ragionevoli con la qualità delle decisioni. L’attività del magistrato deve essere contrassegnata da razionalità, dalla corretta applicazione del metodo del ragionamento giuridico nella sperimentazione fino in fondo delle teorie della falsificazione, al fine di verificare le eventuali fallacie nella tesi prescelta tali da rendere non corretta l’intera costruzione dell’argomentazione giuridica. A tutti raccomanderei la sempre costante attenzione ai punti di vista diversi dal proprio e la disponibilità intellettuale a rimettere in discussione le proprie convinzioni quando si verifichi che le prospettazioni altrui hanno un più solido fondamento. È questo l’abito mentale che ogni magistrato, uomo e donna, dovrebbe avere per essere degno di indossare la toga. È chiaro poi che la specificità della formazione culturale di una donna, la sua sensibilità, il suo modo di vedere il mondo possono rivelarsi preziosi, soprattutto all’interno di organi collegiali, proprio per garantire quella pluralità di prospettive che è il migliore antidoto contro decisioni sbagliate.

 

Nella sua alta relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, lei ha voluto affrontare il tema dei diritti fondamentali, non solo nella loro rappresentazione dinanzi al Giudice ma anche nel discorso sociale, ben delineando la diversità di tali ambiti. Ha poi rilevato che, cito testualmente: “L’iniziativa giudiziaria deve costituire l’estrema ratio quando non hanno funzionato gli strumenti di controllo preventivo amministrativi e politici e che la giustizia, in particolar modo quella penale, non può fungere da impropria sede per l’elaborazione di princìpi etici su cui fondare la convivenza civile”. Vuole ulteriormente soffermare la sua riflessione su questo passaggio?
Voglio solo spiegare che il senso della mia riflessione è un invito a tutte le Istituzioni a recuperare una visione della complessità dell’ordinamento democratico moderno che vive e si alimenta dei diversi apporti istituzionali ma anche delle risposte fornite da ciascun organismo nelle sedi deputate. Davanti ad un accadimento non esiste solo la risposta giudiziaria che necessariamente è l’ultima in ordine di tempo. In una moderna visione di uno Stato democratico dovrebbe essere radicata nella collettività la consapevolezza che l’ordinamento vive anzitutto di un’azione di prevenzione, della capacità di risposta non solo giudiziaria ma anche, e ancor prima, in ambito sociale, amministrativo e politico. I magistrati sono chiamati a dare risposta nei singoli casi concreti, sono soggetti esclusivamente alla legge, parlano con i provvedimenti correttamente motivati, ma l’ordinamento non può vivere dei princìpi autoritativamente espressi dalla magistratura. L’ordinamento, come ci insegna la Costituzione, ha necessità della collettività, di corpi intermedi e dell’impegno di ogni persona consapevole che con il proprio talento e con le proprie doti è chiamata a contribuire al progresso della vita democratica del Paese. Si tratta di recuperare la centralità del valore della persona e dell’impegno di ciascuno.

Dall’alto del suo ruolo, da magistrata, le chiedo cosa pensa del fenomeno che vede le avvocate vittime di violente aggressioni verbali soprattutto attraverso i social per aver assunto la difesa di imputati di particolari reati dei quali sono vittime altre donne. Si tratta, a mio avviso, di una deriva giustizialista per la quale non tutti gli imputati sono meritevoli di difesa e le avvocate in quanto madri, mogli e comunque donne, ontologicamente impossibilitate a ricoprire questo ruolo.
Il mio auspicio è che sia sempre più radicata nella coscienza sociale la consapevolezza che nessun ordinamento può essere giusto se fondato sullo spirito di vendetta. Il processo è pacatezza, razionalità, rifiuto dell’emotività e soprattutto il riconoscimento che ogni persona ha diritto a vedere affermati e rispettati i suoi diritti fondamentali. Solo così si può realizzare la precondizione per una convivenza fondata su regole reciprocamente condivise.

Certamente l’effettività del diritto di difesa è uno dei capisaldi del giusto processo.
È diritto irrinunciabile. Deve essere forte la consapevolezza che il difensore è un coprotagonista della giurisdizione al pari del Giudice e che, se abdicasse al suo ruolo fondamentale, non potremmo più definire il nostro ordinamento democratico.

Né si può cedere all’idea che il diritto di difesa possa essere una “questione di genere”.
Assolutamente no. Il diritto di difesa è un valore irrinunciabile. Dispiace che oggetto di reazioni assolutamente ingiustificate ed emotive siano donne professioniste, evidentemente nella falsa convinzione che possano essere più facilmente attaccate perché appartenenti a un genere “più debole”. Non è così, le donne con tutta la loro storia hanno sempre dimostrato la loro forza.

Sabrina Viviani - avvocato penalista

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