Chissà se Giorgia Meloni conosce una delle più note citazioni di Nietzsche. “Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante”. È probabile visto che oggi la premier avvia il Tavolo istituzionale delle riforme costituzionali convocando alla Camera i leader delle opposizioni. E lo fa pur avendo intorno a sé il caos più totale. Cioè, il governo è in stallo per la nomina del nuovo comandante della Guardia di Finanza, casella che nei piani della premier si tira dietro il cambio alla guida della Polizia di stato e alla Prefettura di Roma vacante da mesi; ha qualche problemino anche su colossi come Enel, sulla previdenza (all’Inps è stato sostituito con un blitz il presidente Tridico colpevole di essere troppo grillino), per non parlare di Rai dove la messa alla porta con leggina ad hoc dell’ad Fuortes sta per avviare la grande abbuffata ai tg e alle direzioni; rischia di far grippare il motore del Pnrr (i super tecnici indicati da Draghi sono in fuga dopo che il Mef è stato costretto a lasciare la cabina di regia a palazzo Chigi) mettendo in seria difficoltà i conti dello Stato.

Potremmo continuare, l’elenco dei passaggi stretti è lungo. E la premier che fa? Cambia partita e comincia quella più difficile: le riforme costituzionali. Delle due: o è convinta di avere quella autorevolezza e la forza numerica in grado di portare fino in fondo ciò che da 25 anni tutti vorrebbero ma nessuno ci riesce (D’Alema nel 1997; Renzi 2016); oppure sta cercando di cambiare la narrazione del governo e di raccontare di un esecutivo che guarda avanti sicuro senza curarsi delle strettoie. Le riforme, dunque, cioè i fondamentali della Repubblica. La strada è, manco a dirlo, in salita.

Già sono tornati in campo i costituzionalisti, da Zagrebelsky in giù o in su, Celotto, Ceccanti, Ainis, favorevoli e contrari. Giorgia e i suoi Fratelli sono convinti della necessità di un Presidente della Repubblica eletto dal popolo “per dare stabilità e continuità alla politica e alla volontà del popolo di questa Nazione”. Forza Italia è molto più cauta e punta sul premierato, un leader di governo eletto dal popolo e con maggiori poteri di quelli attuali per cui non potrebbe, ad esempio, bastare un voto di sfiducia per mettere in crisi l’esecutivo. “Io credo – ha spiegato il vicepremier Tajani – che per l’Italia il premierato potrebbe essere una soluzione più gradita alla maggioranza delle forze in Parlamento”. Ciò detto, “la ricetta migliore va trovata insieme, maggioranza e opposizione” Anche la Lega diffida sull’elezione diretta del Capo dello Stato. L’unica cosa che veramente interessa adesso è l’autonomia regionale differenziata che Salvini vorrebbe subito e Meloni no. E quanto sopra per dire che tutto sommato le idee sono abbastanza confuse anche nella maggioranza.

Nelle opposizioni la situazione è ancora peggio con il Pd che perde pezzi (l’ultimo è l’economista Carlo Cottarelli, “il mio essere liberal-democratico non è più rappresentato dal Pd di Elly Schlein”), la segreteria spostata a sinistra e all’inseguimento di Conte e i riformisti senza una vera casa. Va detto che le riforme sono nel programma di Fratelli d’Italia e del governo (anche se nel 2016 Giorgia Meloni fece votare no al referendum di Renzi). Gli incontri iniziano oggi, un’ora circa per ciascuno. Siamo al giro di tavolo per capire umori e direzioni. Il luogo è la biblioteca della Camera.

Iniziano alle 12 e 30 Conte e il Movimento 5 Stelle, poi le Autonomie (14), Azione-Italia viva (15,15), + Europa (16.15), Verdi e Sinistra (17.30). Il Pd chiude alle 18.30. Sarà anche la prima volta di un faccia a faccia vero, su un tema specifico, tra le due leader donne. In generale tutte le forze di opposizione hanno risposto positivamente alla chiamata del presidente del Consiglio. Nel merito le premesse non sono delle migliori: il no al presidenzialismo è quasi corale, il ruolo e i poteri del Capo dello Stato non si toccano. Qualche spiraglio s’intravede sull’ipotesi di una sorta di premierato alla tedesca, ovvero affidare al presidente del Consiglio più poteri. Su questa linea, ad esempio, si posiziona Carlo Calenda: “Noi andiamo a vedere, se poi scopriamo che è o così o nulla, ce ne andiamo. In generale, visti i precedenti, sconsiglio di andare avanti per forza e da soli”. Favorevole all’elezione diretta del premier è Italia viva: da tempo Matteo Renzi immagina il premier come il sindaco d’Italia, ovvero un sistema di elezione diretta con doppio turno e superamento del bicameralismo. Il Pd è già diviso tra l’anima riformista che crede da tempo in una riforma profonda e in quella più conservatrice, a sinistra, e garante dello status quo. Come sono 5 Stelle e Sinistra e verdi: “Giù le mani dalla Costituzione”.

Insomma, divisi nella maggioranza e divisi nelle opposizioni. E Giorgia Meloni sa bene che per ottenere il risultato (anche nell’ipotesi più che probabile del referendum) ha bisogno di almeno un pezzo delle opposizioni. Premier e maggioranza di governo auspicano un confronto aperto senza pregiudiziali con le opposizioni. Ma, come ha chiarito il vicepremier Antonio Tajani, se le opposizioni sceglieranno l’Aventino e rifiuteranno il dialogo con la maggioranza “noi andremo avanti, poi ci saranno i referendum e decideranno i cittadini”. Un film già visto. Con finale scontato.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.