Tutti sappiamo che l’Italia è una Repubblica parlamentare, ma sappiamo anche che il nostro modello di parlamentarismo funziona male. In 75 anni di vita repubblicana abbiamo avuto 69 governi, con una durata media di 14 mesi. Nel nostro modello, che la legge elettorale sia proporzionale o maggioritaria, abbiamo avuto sempre governi di coalizione, che hanno tutti mostrato grande difficoltà nel tenere coesa la maggioranza e nel decidere le linee di governo.

Il modello costituzionale del 1946 è riuscito a trasformare l’Italia dal punto di vista sociale ed economico, è riuscita ad attuare quella che Calamandrei definì come la “rivoluzione…. ancora da fare”. Ed è anche riuscito a tenere una salda formazione democratica e pluralista in uno Stato che repubblicano non era mai riuscito a essere, ma non è riuscita a creare un sistema di governo davvero efficace.

Tutto nasce proprio dall’Assemblea Costituente e dal famoso ordine del giorno Perassi. Era il 4 settembre 1946. I Costituenti avevano discusso di presidenzialismo e di parlamentarismo, avevano valutato il sistema americano e quello inglese e poi avevano deciso per una via di mezzo: “La Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”.

I costituenti erano consapevoli che il parlamentarismo non avrebbe funzionato e che servivano meccanismi proprio per “tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo”. Ma queste riforme non sono mai arrivate. Sono ormai cinquant’anni che se ne parla, perché è dalla fine degli anni Settanta che ci si rese conto che la Costituzione non era tutta “presbite” (per usare ancora le parole di Calamandrei), ma era presbite nella prima parte e “miope” nella seconda.

Bozzi 1983, De Mita-Jotti 1992, D’Alema 1997, Berlusconi 2005, Renzi 2016 sono i tentativi che dimostrano che è necessario cambiare, anche se nelle difficoltà della politica non ci si è mai riusciti. I vantaggi di un sistema presidenziale sono evidenti: i Governi diventano di più lunga durata e tendenzialmente durano per l’intera legislatura. Nelle nostre diciannove legislature fino ad ora nessun governo è rimasto in carica per cinque anni e i governi che sono riusciti a restare in carica almeno tre anni (Craxi, Berlusconi, Renzi) non a caso sono stati quelli che sono riusciti ad attuare maggiori riforme e iniziative.

La composizione dei governi risponde più direttamente alla volontà degli elettori. Nel sistema parlamentare la maggioranza la forma il Parlamento e non gli elettori. Per cui non dobbiamo stupirci che in una legislatura come la diciottesima abbiamo visto la formazione di tre governi con compagini del tutto differenti ed eterogenee e che hanno tenuto conto soltanto in parte delle indicazioni elettorali.

In un sistema presidenziale, invece, non può certo andare al governo chi ha perso le elezioni e in tal modo c’è anche per l’elettore un maggior riconoscimento delle sue indicazioni. Forse tra le cause di disaffezione degli elettori dalla politica degli ultimi decenni (che hanno visto crollare l’affluenza alle urne dal 94 al 63 per cento per le politiche) c’è anche la non corrispondenza tra voto e compagine di governo.

Il presidenzialismo porta a un governo stabile, che funziona e che risponde alla volontà elettorale. Restano da valutare i meccanismi applicativi del presidenzialismo, perché sappiamo che può essere declinato anche in forme di semi-presidenzialismo o di premierato, sempre nella consapevolezza che serve integrare il sistema dei freni e contrappesi per garantire il pluralismo democratico all’interno di un sistema presidenziale. Del resto, il presidenzialismo non è una riforma ignota al nostro ordinamento. Il modello costituzionale del 1948 prevedeva che anche regioni e comuni fossero sistemi parlamentari e invece, nei decenni sono stati entrambi trasformati in modelli presidenziali, proprio per favorire la stabilità e la identificabilità dei governi locali (con la riforma costituzionale avviata nel 1999 per le regioni e con la legge 25 marzo 1993 n. 81).

La riforma in senso presidenziale è una riforma utile al nostro modello e anche urgente, visto che da tanto ne discutiamo. Ma con un’unica raccomandazione. La riforma va approvata a maggioranza molto ampia, perché la Costituzione non può che essere “di tutti”. Ce lo ricorda proprio la Costituente: era composta da almeno tre anime politiche e ideologiche, con fiere contrapposizioni, eppure Togliatti, De Gasperi, Nenni, Ruini e gli altri riuscirono ad approvare il testo finale con l’88 per cento dei voti favorevoli perché una buona Costituzione, come patto sociale fondamentale, non può essere di destra o di sinistra, non può essere un campo di battaglia politico.

Deve essere l’accordo di tutti, perché devono essere regole al di sopra della politica di tutti giorni. Le riforme non dovrebbero essere fatte solo da una maggioranza politica contingente. Anche per questa ragione la nostra Costituzione vive solidamente da 75 anni.

 

Alfonso Celotto

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