Giorgia Meloni ha più volte ripetuto, da quando è divenuta presidente del Consiglio, che hanno un ruolo centrale, nella sua agenda di governo, le riforme istituzionali e, tra queste, in primo luogo la introduzione del semipresidenzialismo. Le ragioni a favore di una riforma così importante sono numerose. Innanzitutto, da un lato l’esigenza di una maggiore stabilità istituzionale e, dall’altro, la constatazione che, di fatto, il presidente della Repubblica è giunto ad assommare su di sé un insieme di poteri, che, per quantità e qualità, non consentono più di considerarlo un imparziale arbitro super partes, ma un protagonista attivo della vita non solo istituzionale, ma anche politica, del Paese.

Tuttavia, è inimmaginabile che una riforma così profonda come quella del semipresidenzialismo possa essere portata avanti senza una riflessione sulle condizioni sociali e politiche della collettività, in cui quella riforma sarebbe destinata ad operare. Il tentativo di insurrezione svoltosi in questi giorni in Brasile induce, in particolare, a chiedersi se la possibilità di una elezione diretta del capo dello Stato non implichi, di per sé, il rischio, ogni volta, di un tentativo di rivolta di chi abbia perso. La serietà del quesito è, ovviamente, rafforzata dal ricordo della analoga sommossa che, appena due anni fa, si è consumata negli Stati Uniti a seguito della sconfitta di Donald Trump. Il 6 gennaio 2021 si svolse, nella Elipse di Washington D.C., una manifestazione con la significativa denominazione di “Save America March”, volta a denunciare i pretesi brogli che avrebbero portato alle elezioni di Biden, con migliaia di partecipanti e con figure istituzionali tra gli oratori. Durante la manifestazione alcune centinaia di partecipanti si staccarono per andare a tentare di occupare Capitol Hill e, cioè il cuore della democrazia americana, essendo la sede del Congresso.  Il 9 gennaio scorso, in Brasile, migliaia di sostenitori di Bolsonaro, affermando anche in questo caso che la vittoria di Lula fosse stata il frutto di brogli, hanno attaccato le sedi del potere istituzionale: il Parlamento, il Palazzo presidenziale e il Tribunale Supremo federale.

Le vicende sono troppo simili ed eclatanti per poter essere ridotte a insignificanti accidenti della storia di quei due paesi. Vi sono alcuni tratti comuni, che impongono di ricercarne le cause profonde anche per poter tentare di dare una risposta al quesito se situazioni del genere possano, e a che condizioni, ripetersi e, soprattutto per quello che qui interessa, se ciò potrebbe riguardare anche l’Italia. Gli aspetti che sembra necessario prendere in considerazione appaiono essenzialmente due. Il primo è offerto dalla circostanza che nella competizione per la elezione a Presidente, il conflitto si riduce, alla fine, al confronto tra due persone. Vi sono, perciò, le condizioni affinché esso si manifesti con la massima asprezza, incanalandosi spesso sulla via della delegittimazione e demonizzazione dell’avversario. Ciascuno dei sostenitori dei due schieramenti sentirà, a quel punto, che la sconfitta dell’avversario, che è divenuto un nemico, è una questione di giustizia. Il secondo aspetto da prendere in considerazione è che in tutte le società moderne si è ormai accentuato il rapporto diretto tra leader e seguaci. La competizione, quindi, rischia di svolgersi tra tifoserie urlanti, vellicate nei loro istinti, senza che operi alcuna stanza di decantazione.

Se queste premesse sono vere e se si volge lo sguardo all’Italia, non si può non osservare che, nello stato attuale delle cose, sussistono tutte le condizioni perché una competizione elettorale per la scelta diretta, da parte del popolo, del presidente della Repubblica finisca male. In primo luogo, tutte le sedi di decantazione della contesa del potere, e cioè le organizzazioni intermedie, sono ormai state da tempo distrutte. Prima è stata Mani Pulite a indicare agli italiani che i partiti non erano nient’altro che centri di corruzione. Poi l’esperienza di Berlusconi ha insegnato che gli apparati dei partiti ben avrebbero potuto essere sostituiti da un rapporto diretto tra leader e seguaci e, da ultimo, Grillo ha convinto tutti che quel rapporto diretto, favorito dagli strumenti telematici, fosse l’unica autentica espressione, oggi possibile, di democrazia. Prova di tutto questo è la attuale confusione del Partito Democratico su quale direzione debba imboccare già sul piano meramente organizzativo.

In secondo luogo, i decenni ormai passati da Mani Pulite testimoniano che, anche in Italia, la demonizzazione e la delegittimazione dell’avversario sono divenuti molto spesso l’unico vero strumento di lotta politica. Basti dire che, dopo oltre vent’anni dalla sua morte, vi è ancora una diffusa resistenza a ricostruire la dimensione politica dell’attività di Bettino Craxi, costituendo un insormontabile ostacolo pregiudiziale l’etichetta di ladro affibbiatagli dalla Procura di Milano e dai dirigenti del Partito Comunista. Di fronte a uno scenario del genere, diventa allora inevitabile chiedersi quali potrebbero essere in Italia gli sviluppi di una competizione per la elezione diretta del Presidente della Repubblica. La questione, dunque, non riguarda, in via preliminare, la ampiezza dei poteri da attribuire a un Presidente eletto dai cittadini, bensì la considerazione della esistenza o no delle condizioni affinché quella competizione non si risolva ogni volta in un rischio per la tenuta democratica del Paese.

Ecco, allora, che, forse, prima di chiedersi se sia utile e più efficiente un sistema presidenziale o semipresidenziale, sarebbe necessario chiedersi cosa occorra fare per rinsaldare il sistema democratico. In particolare, occorrerebbe iniziare a lavorare per restituire autorevolezza e dignità a quelle organizzazioni intermedie, a cominciare dai partiti, che costituiscono le fondamenta di un sistema democratico solido. Rafforzare i vertici delle istituzioni, senza preoccuparsi della fragilità del tessuto organizzativo, che tiene insieme il Paese, significherebbe creare le condizioni per un tracollo del sistema democratico, ridotto a un gigante con i piedi di argilla.