Le analisi del Rapporto
Il governo Meloni prende schiaffi da tutti: Europa e Svimez bacchettano l’Italia

Non solo la tragedia – annunciata – di Ischia. E’ un lunedì complicato quello del governo Meloni in cui la premier e i suoi fedelissimi si ritrovano a dover fare i conti con una serie di critiche e altolà, moniti e avvertimenti, che non possono ignorare. L’inferno ischetano non può certo essere imputato al nuovo governo ma su questo inferno l’esecutivo ha il dovere di un cambio di passo. a: il divario del pil nord-sud destinato a crescere, +0,8 il primo, -0,4 il secondo; il tasso di povertà che vede 500 mila nuovi poveri in più concentrati nelle regioni meridionali; il monito a non dissipare le risorse del Pnrr che, anzi, vanno meglio coordinate con le numerose altre risorse; l’altolà dell’autonomia regionale che guai a farla adesso.
Il reddito di cittadinanza, infine, che ha “senza dubbio contenuto il livello di povertà” e quindi “occhio a fare modifiche repentine e a senso unico”. Una lista di consigli non richiesti, che potrebbero trovare ascolto nelle modifiche alla legge di Bilancio ma alle quali la premier Meloni non ha dedicato una parola nel suo intervento di ieri pomeriggio all’Assemblea generale di Confindustria Veneto Est. Vedremo, la manovra deve ancora iniziare l’iter parlamentare dove la premier si è detta “ben disposta ad eventuali modifiche se non hanno il marchio dell’ideologia” perché “l’obiettivo del governo è fare ciò che è giusto per la nazione non quello che è utile al consenso di una parte”. Ad esempio, Meloni potrebbe fare marcia indietro sul non obbligo del pos al di sotto dei 60 euro. Ieri pomeriggio palazzo Chigi ha diffuso una nota per “precisare che su questo tema (modifica entrata all’ultimo tuffo in legge di bilancio e strombazzata ieri mattina su tutti i giornali, ndr) sono in corso interlocuzioni con la Commissione Ue dei cui esiti si terrà conto nel prosieguo dell’iter della legge di bilancio”.
L‘Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno ha presentato ieri mattina alla Camera il 49° rapporto annuale che da qualche anno è uno dei testi da cui chi gestisce le politiche economiche del Paese non può prescindere. I numeri sono impietosi e raccontano di una forbice che va sempre più allargandosi tra nord e sud. Nel 2023 il Pil meridionale rischia di contrarsi fino a -0,4%, rispetto a quello del Centro-Nord che resta positivo al + 0,8 (il dato medio nazionale è +0,5%). Anche il 2022, che pure alla fine, nonostante tutto, è andato benino, segna almeno un punto di scarto (+3,8 al nord; +2,9 al sud). Tutta colpa dello shock energetico e dell’inflazione che hanno “cambiato il segno delle dinamiche globali – rallentamento della ripresa; comparsa di nuove emergenze sociali; nuovi rischi operativi per le imprese – interrompendo il percorso di ripresa nazionale coeso tra Nord e Sud”. Un po’ meglio dovrebbero andare le cose nel 2024 quando il pil dovrebbe crescere dell’1,5% al centro- nord e dello 0,9% al sud.
La diagnosi è spietata: “La debole ripartenza meridionale è rintracciabile sul lato dell’offerta: a seguito dei continui restringimenti di base produttiva sofferti dal Sud dal 2008, si è sensibilmente ridimensionata la capacità del sistema produttivo dell’area di agganciare le fasi espansive del ciclo economico”. A Sud non c’è impresa e quella poca non è sufficiente. Da qui il mezzo milione di nuovi poveri al Sud.
Il governo deve quindi fronteggiare una duplice sfida. Da un lato va assicurata continuità alle misure contro il caro energia per mitigare l’impatto sui bilanci di famiglie, soprattutto le più fragili, e a favore delle imprese per salvaguardarne l’operatività. Prima questione: i 21 miliardi in Manovra per questa voce sono tanti, il massimo che si possa prevedere senza far sballare i conti; ma siamo sicuri che dedicarne più della metà al credito d’imposta sia a questo punto la soluzione migliore? Non sarebbe meglio ad esempio mettere 15 miliardi “nelle tasche degli italiani”, abbattendo a monte i costi in bolletta, dando magari la precedenza ai più poveri?
Dall’altro lato, è essenziale – si legge nel Rapporto – “accelerare sul fronte delle misure di rilancio degli investimenti pubblici e privati dando priorità alla politica industriale attiva per ampliare e ammodernare la base produttiva soprattutto meridionale, condizione imprescindibile per la creazione di buona occupazione”. Detta in parole più semplici, mettere in sicurezza l’attuazione del Pnrr è cruciale per combattere la forbice nord-sud. Alto che modifiche e correzioni. Secondo gli economisti dello Svimez “va consolidata la finalità di coesione economica, sociale e territoriale; potenziate le misure di accompagnamento degli Enti territoriali nella realizzazione delle opere; rafforzare il coordinamento del Piano con la politica di coesione europea e nazionale e con la politica ordinaria”. Luca Bianchi, direttore generale di Svimez, è stato ancora più chiaro presentando il Report: “Il Pnrr e le politiche di coesione (Por e Pon) prevedono per il Sud risorse senza precedenti in attesa di un coordinamento: attenzione però perché c’ il rischio che si crei un imbuto progettuale, una strozzatura”. E questo perché il Pnrr e le politiche di coesione “fanno spesso fatica a parlarsi perché hanno procedure e logiche diverse”.
La solita maledetta burocrazia che rallenta tutto: al 30 giugno scorso era stato speso appena il 60% dei Por e il 62% dei Pon e 12,8 miliardi sono a rischio disimpegno per il ritardo di attuazione. Uno spreco inaudito. Serve un “coordinamento costruito in corsa per rendere effettive le complementarità strategiche, finanziarie e attuative tra Pnrr e coesione”. Ma di fronte alla richiesta di “maggiore ed urgente coordinamento” il ministro del Pnrr Raffaele Fitto sembra avere una ricetta diversa. A cominciare dal fatto che il Pnrr “non può essere un dogma”. Il Piano nazionale – ha affermato – “è stato raccontato, scelto, determinato subito dopo la fase acuta della pandemia, prima dello scoppio della guerra. Quegli obiettivi e quelle scelte sono ancora attuali?”. E’ necessario invece “fare delle riflessioni, ragionare su quello che accade nel contesto, visto la rapidità drammatica dei cambiamenti”.
Intanto, il ministro non è in grado di garantire la spesa prevista entro la fine dell’anno. Doveva essere pari a 42 miliardi, Draghi l’aveva rimodulata a 33 e adesso potrebbe essere inferiore a 22 miliardi. Del resto, una volta caduto il governo, la macchina si è inevitabilmente rallentata. Il governo non sembra quindi voler ascoltare, almeno sul Pnrr, l’appello degli economisti di Svimez. Che lancia altri due ammonimenti. Il primo riguarda il Reddito di cittadinanza. “Guai – si legge nel Report – a scaricare sui percettori le carenze dei Centri per l’impiego e della mancanza di lavoro. Al sud solo uno su cinque ha ricevuto una vera offerta di lavoro”. Non solo: il Reddito ha svolto un ruolo fondamentale nel contenere la povertà. Senza, ci sarebbero stati un milione circa di poveri in più. Il secondo ammonimento riguarda l’Autonomia differenziata delle regioni. “Guai farla adesso, in queste condizioni e senza tutte le necessarie riforme messa a terra”. Vorrebbe dire “cristallizzare i divari tra cittadini e territori, senza sanare quella frattura che ha reso il Paese più debole”. Appunti preziosi per la guida del Paese.
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