Dopo la generica proposta presente nella bozza di programma del centro destra di “Elezione diretta del Presidente della Repubblica”, il che implica una modifica importante della forma di governo parlamentare in vigore in Italia dal 1948, si è aperto sui giornali un utile dibattito a questo proposito. Con il termine presidenzialismo s’intendono in realtà regimi politici molto diversi fra di loro. Non basta, tanto per cominciare, l’elezione diretta del presidente della Repubblica da parte dei cittadini per qualificare una forma di governo come presidenziale e la confusione introdotta nel linguaggio costituzionale dal termine semipresidenzialismo non aiuta a capire con chiarezza di cosa si sta parlando.

Uno sguardo all’esperienza francese può aiutare probabilmente ad arricchire la discussione che si è aperta, accanto alle utili osservazioni che sono state già presentate sul tema in generale da Gustavo Zagrebelsky, Sabino Cassese e Luciano Violante. Le note che seguono non sono di per sé una difesa della importazione di un modello che si è affermato in un paese con una storia politica molto diversa dalla nostra. I trasferimenti di istituzioni non sono facili, ma nemmeno impossibili, per essi vale la precauzione, handle with care! Come conseguenza delle elezioni legislative dello scorso giugno, il sistema politico-costituzionale francese si è trovato in una situazione inabituale. Ensemble, cioè l’insieme delle forze politiche vicine a Emmanuel Macron, rieletto per la seconda volta in aprile alla presidenza della Repubblica, non ha ottenuto, come sperava, la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale, ma solo quella relativa, una condizione che rende difficile l’attività legislativa, in un paese che per la sua struttura per certi versi presidenziale e per la sua legge elettorale non è abituato ai governi di coalizione e ai compromessi fra partiti dopo le elezioni.

Si tratta di un caso con un solo precedente, ovvero il governo del socialista Michel Rocard che nel 1988 non poté appoggiarsi su una maggioranza assoluta, alla quale mancavano 14 voti. Spesso, però, il presidente francese ha potuto godere di una maggioranza piena a suo favore in seno all’Assemblée nationale, il fondamentale organo legislativo, nei confronti del quale il Senato non può esercitare un diritto di veto. In caso di coabitazione, che si è prodotta in tre occasioni in passato (fra il 1986 e il 2002), quando il presidente ed il primo ministro erano espressione di opposte maggioranze, quella dell’Assemblea era diretta dal primo ministro, il che riconduceva fino ad un certo punto la forma di governo a quella di tipo parlamentare. Le tre diverse versioni dell’ordinamento politico e della forma di governo francese appena considerate si spiegano con la natura e la storia della costituzione della 5a Repubblica.

Il testo originario del 1958– nonostante l’ostilità di Charles De Gaulle su questo punto – presentava una struttura parlamentare, razionalizzata rispetto al parlamentarismo debole e instabile della 4a repubblica. Si potrebbe dire che Michel Debré diede realizzazione alle attese dell’ordine del giorno di Perassi del 4 settembre 1946, da noi mai soddisfatte. Struttura parlamentare, dicevamo, poiché il presidente della costituzione francese del 1958 non era eletto dai cittadini, ma, indirettamente, da 82000 grandi elettori (cioè i parlamentari, i consiglieri regionali e quelli municipali: basti pensare del resto che la Francia conta su 36mila comuni). È solo con il referendum popolare, di dubbia legalità costituzionale, voluto da De Gaulle nel 1962 che è nata quella forma di governo nota con l’espressione ambigua di semi-presidenzialismo.

In realtà si trattava di un ordinamento che poteva e ha assunto in diverse occasioni per lo più due forme: quella in cui il capo dello Stato eletto direttamente era di fatto il capo dell’esecutivo, nonostante la presenza di un primo ministro da lui scelto e da lui sostituibile, o, alternativamente, quella – che va, come ricordato, sotto il nome di coabitazione – in cui il primo ministro, espressione di una maggioranza diversa da quella che aveva eletto il presidente della Repubblica, era in realtà il capo del governo, responsabile solo dinanzi alla sua maggioranza, mentre il presidente – in base ad una convenzione costituzionale – aveva una specie di quasi monopolio della politica estera. La cosiddetta coabitazione era resa possibile dalla circostanza che mentre il mandato presidenziale era di sette anni quello dei membri dell’Assemblea era di cinque.

Esisteva, dunque, la possibilità che la maggioranza del corpo elettorale cambiasse opinione nel lasso di tempo che separava le elezioni presidenziali da quelle legislative o dopo uno scioglimento della Assemblea da parte del presidente. Fu proprio per evitare il ripetersi di coabitazioni, che limitavano di fatto decisamente i poteri del presidente, che Chirac promosse nel 2000 la riforma costituzionale che ha ridotto a cinque anni il mandato presidenziale e poi, nel 2002, accorpato le elezioni presidenziali e le legislative, che hanno ormai luogo subito dopo quelle del presidente della Repubblica. Si poteva contare, grazie al nuovo calendario elettorale, su un effetto di trascinamento che doveva garantire alla maggioranza del presidente eletto il controllo dell’assemblea e la nomina di un primo ministro politicamente vicino e in certa misura subordinato al presidente. Così è accaduto infatti in tutte le elezioni dopo il 2002.

Fino al giugno scorso, quando i risultati elettorali hanno prodotto una assemblea divisa per l’essenziale in tre parti: la destra nazionalista di Marine Le Pen, che era stata sconfitta alle presidenziali, ma il cui partito, il Rassemblement national ha conquistato ben 89 seggi, la coalizione delle sinistre radicali (Nupes) fondata da Jean-Luc Mélenchon, 151 seggi e la coalizione macronista 250, lontana dai 289 necessari per ottenere una maggioranza assoluta. Ma la costituzione della 5a repubblica permette oltre alla coabitazione (il governo di una assemblea di un colore diverso da quello del presidente), e al super-presidenzialismo (quando il presidente controlla l’assemblea grazie alla sua maggioranza) anche una terza versione: il governo di minoranza, nella misura in cui il primo ministro è in grado di trovare dei compromessi con i parlamentari al di là della propria maggioranza relativa.

Questa è la situazione in cui si trova ad operare il primo ministro Elisabeth Borne e il suo esecutivo, mostrando per ora una certa capacità di mediazione ed efficacia legislativa. Grazie alla presenza nell’assemblea di 62 deputati del partito post-gollista (Les Républicains), che a differenza delle ali estreme sembrano disposti a fare dei compromessi e contribuire all’attività legislativa. Il ruolo della destra repubblicana è reso più rilevante dal fatto che essa controlla tradizionalmente il Senato, che pur non eletto direttamente dai cittadini e privo di un potere di veto assoluto, ha una influenza nel processo legislativo, in particolare attraverso la proposta di emendamenti. L’assenza di una maggioranza presidenziale assoluta, e dunque un governo di minoranza con l’appoggio esterno della destra non radicale sui singoli provvedimenti di legge, sembra permettere di evitare la paralisi legislativa e il rischioso ricorso a nuove elezioni, che il presidente francese ha sempre la possibilità di indire.

Nei prossimi mesi sarà possibile valutare i progressi del governo di Elisabeth Borne che ha già ottenuto l’approvazione di un pacchetto di misure relative all’aumento del costo della vita provocato dall’inflazione. Questo sembra testimoniare la flessibilità della costituzione francese, che pure era poco abituata in passato ai compromessi fra forze politiche. Flessibilità qui nel senso di capacità di adattarsi senza rompersi a forme diverse che assume l’ordine politico in base ai risultati delle elezioni. In realtà riemerge la versione parlamentare della costituzione del 1958. In conclusione, se, come qualcuno ha proposto, si vuole imitare il modello francese, bisogna prima ben capire il prodotto di importazione.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

Autore