La sconfitta di Macron, con la perdita della maggioranza assoluta in Assemblea nazionale, segna la crisi del modello semipresidenziale francese. Crisi forse non ancora strutturale ma di certo non imputabile al destino “cinico e baro”. Crisi che in ogni caso dovrebbe suggerire qualche riflessione anche alle nostre latitudini, dove, nell’eterno cantiere delle riforme istituzionali, il semipresidenzialismo francese è sempre stato punto di riferimento se non di auspicato approdo.

Tra i diversi sistemi semipresidenziali esistenti in Europa – tutti caratterizzati dalla condivisione del potere esecutivo (c.d. bicefalismo) tra un Presidente della Repubblica eletto direttamente ed un Primo ministro che ha la fiducia del Parlamento – quello francese è sempre stata la versione preferita dai nostri riformatori per la netta prevalenza del primo sul secondo. Non il Presidente rassembleur immaginato da De Gaulle, con un ruolo rappresentativo o di garanzia, ma un “monarca repubblicano”, con autonomi e forti poteri politici, che cumula in sé quelli del Presidente degli Stati Uniti (demoeletto e politicamente inamovibile) e del Premier inglese (quale leader del partito di maggioranza in Parlamento e dotato del potere esclusivo di scioglimento di quest’ultimo). Un predominio rispetto al quale il ruolo del Primo ministro sbiadisce, venendo talora utilizzato dal Presidente come comodo parafulmine su cui scaricare – sostituendolo – le sue responsabilità. Ad accrescere il fascino di tale modello concorre(va) sia la bipolarizzazione del sistema partitico indotta dalla competizione presidenziale e dal sistema elettorale maggioritario a doppio turno, sia l’istituzionalizzazione del ruolo dell’opposizione parlamentare, che può ad esempio fare diretto ricorso al giudice costituzionale contro le leggi ritenute illegittime.

In tale contesto politico-istituzionale la coabitazione forzata tra Presidente e Primo Ministro di segno politico opposti è stata sempre considerata più una iattura che un elemento di equilibrio del sistema. Ciò anche alla luce dei continui contrasti tra le due “teste” dell’Esecutivo (Presidente della Repubblica e Primo ministro) che hanno caratterizzato le precedenti tre “coabitazioni”: le due brevi tra Mitterrand–Chirac (1986-1988) e tra Mitterrand-Balladur (1993-1995) e, soprattutto, quella lunga tra Chirac–Jospin (1997-2002) durante cui il Presidente ha dovuto limitare i propri poteri, rivendicando ad esempio come proprio domaine réservé la politica estera e la difesa, a cominciare dalla scelta dei relativi Ministri. Proprio per evitare il ripetersi di tali coabitazioni nel biennio 2000-01 il mandato del Presidente è stato ridotto da 7 a 5 anni, allineandolo alla durata della legislatura, e soprattutto si è stabilita l’elezione a distanza di poche settimane (prima) del Presidente e (poi) dell’Assemblea nazionale, confidando che l’effetto trainante della prima sulla seconda, e quindi la “luna di miele” tra elettori e Presidente neo eletto, determinasse una maggioranza parlamentare a suo favore.

Nonostante tali accorgimenti, per la prima volta il Presidente è ben distante dall’avere la maggioranza assoluta in Assemblea nazionale. Se al precedente unico Governo di minoranza guidato dal socialista di Rocard, sotto la presidenza Mitterand, mancavano appena 13 seggi alla maggioranza assoluta (275 contro 288), ad Ensemble! (coalizione formata anche da centristi e liberali) ne mancano ben 44 per raggiungere quota 289. Peraltro dei 245 seggi conquistati (contro i 350 del 2017) il partito del Presidente (la République En Marche che ne riprende le iniziali) ha ottenuto appena 170 seggi (contro i 308 del 2017). Non solo il Presidente non ha la maggioranza assoluta ma la situazione odierna è del tutto nuova perché non c’è una maggioranza in Assemblea. Come ipotizzato (v. Il modello francese? Non va preso ad esempio, 20 aprile) l’effetto bipolarizzante (il c.d. fait majoritaire) ha per la prima volta clamorosamente fallito. I risultati elettorali di domenica consegnano ai francesi un Assemblea nazionale quadripolare, divisa tra i centristi di Ensemble! (245 seggi), la sinistra del cartello elettorale della Nupes (131), il centro destra dei Républicains (61, contro i 111 del 2017) e la destra lepenista del Rassemblement National (89 contro gli 8 del 2017).

Il che dimostra che il maggioritario non può né sotto-rappresentare le minoranze quando godono di un elevato consenso (come era successo nel 2017 con il Rassemblement National che nonostante il 13% dei voti al primo turno aveva ottenuto l’1,38% dei seggi), né sovra-rappresentare il partito vincente fino al punto da trasformare la maggioranza relativa dei voti in maggioranza assoluta dei seggi. Anzi, proprio il risultato della Le Pen dimostra come il maggioritario non sia riuscito, come finora si è sempre ritenuto, ad arginare le forze estremiste di destra e di sinistra, i cui elettori anzi nel secondo turno si sono saldati pur di sconfiggere i candidati centristi.
Ed ora quali scenari? C’è chi pensa di risolvere la crisi con un semplice rimpasto di governo (sostituendo i ministri non eletti) e ricorrendo a maggioranze variabili da contrattare legge per legge: soluzione difficile, rischiosa e comunque di corto respiro. Altri fanno affidamento ai meccanismi istituzionali che la Costituzione francese prevede pur di garantire un minimo di governabilità anche a governi di minoranza: la fiducia iniziale presunta; il ricorso alla questione di fiducia (una per sessione parlamentare), il voto bloccato.

In tal modo però si sottovaluta la possibilità che le opposizioni di sinistra e di destra si possano coalizzare (fin dal prossimo 5 luglio) per raggiungere la maggioranza assoluta richiesta per far cadere il governo. In Francia, infatti, la mozione di sfiducia non è costruttiva per cui le opposizioni si possono coalizzare senza per questo dover indicare un nuovo Primo ministro. Si è financo ipotizzato lo scioglimento tra un anno dell’Assemblea (prima sarebbe vietato dall’art. 12.3 Cost., per come interpretato dal Consiglio costituzionale): prima ancora che una manovra democraticamente spregiudicata, un azzardo, giacché le elezioni non sono certo delle slot machine da azionare sperando esca la combinazione vincente. Aggrapparsi a queste soluzioni tecnico-istituzionali significa però sottovalutare la natura essenzialmente politica della crisi del semipresidenzialismo francese. Su questo punctum dolens varrebbe la pena avviare una riflessione di sistema. I sistemi maggioritari a legittimazione diretta degli esecutivi funzionano se alla base c’è una cultura politico-costituzionale omogenea, una condivisione di fondo delle scelte politiche fondamentali tra i partiti politici per cui esse non vengono messe in discussione qualunque sia la maggioranza.

Oggi queste condizioni sono sempre più meno presenti nelle nostre società sempre più eterogenee e frammentate perché attraversate da profonde fratture non più solo ideologiche, ma anche socio-economiche, urbane-rurali (il conflitto tra la Francia dei grandi centri, Parigi in testa, e la Francia delle “periferie”) etniche e religiose (il tema della laicità), sulla politica estera e di difesa (europeisti contro sovranisti), catalizzate dall’aggressione russa, e sulla gestione dei flussi migratori. Vale la pena allora chiedersi se il sistema semipresidenziale francese non finisca per acuire, anziché superare, le profonde fratture esistenti, radicalizzandole e così rischiando di spaccare il Paese proprio quando esso avrebbe bisogno piuttosto di unità per essere “rammendato”. Se a tutto ciò aggiungiamo che al secondo turno delle legislative ha votato appena il 38% degli elettori (contro il 42,64% delle scorse legislative; affluenza in lieve calo anche nel primo turno: 47,51% contro il 48,7% del 2017), soprattutto ultrasettantenni (il 71% dei giovani tra 18 e 24 anni non ha votato), pare evidente non solo che le elezioni presidenziali abbiano fagocitato quelle legislative ma anche che la destrutturazione del sistema partitico francese (a cominciare dalla scomparsa di socialisti e gollisti che ne costituiva l’architrave) e la sua ricomposizione secondo linee di fratture non solo ideologiche sia ben lungi dall’essersi assestata, aprendosi a scenari che potrebbero travolgere il futuro dell’Europa.

Di fronte ad un quadro politico così complesso, contrassegnato dalla necessità di “costruire” una maggioranza parlamentare, tanto insolito per i francesi quanto noto a noi italiani (si pensi alle “consultazioni” avviate da Macron), non si può allora scartare l’ipotesi di una inedita coabitazione del Presidente con la destra gollista oppure con la parte riformista della sinistra (la decisione di socialisti (26 eletti) e Verdi (23) di formare gruppi parlamentari autonomi dimostra la natura di cartello meramente elettorale della Nupes di Melenchon). Una coabitazione in cui la carica di Primo ministro diventa parte integrante ed essenziale dell’accordo politico. Tale coabitazione sembra non solo l’unica soluzione istituzionale di lungo respiro ma anche quella più rispondente al risultato elettorale. Domenica scorsa gli elettori francesi hanno mandato un segnale inequivocabile di protesta per un sistema in cui non si riconoscono più ed a favore di una sua curvatura più parlamentare, per una politica non più di “maggioranza” rispetto a cui si sentono emarginati, ma di “compromesso” di modo che le forze politiche che dovranno “coabitare” siano costrette a convergere tramite la discussione parlamentare per superare, o quantomeno per evitare di aggravare, tali fratture.

C’è un punto oltre cui i meccanismi istituzionali non possono sopperire alle divisioni politiche e le esigenze di governabilità non possono sacrificare quelle della rappresentatività. In Francia domenica questo punto si è definitivamente superato. In questo contesto continuare ostinatamente a sostenere le virtù del modello semipresidenziale francese non pare saggio: un conto è morire per un’idea, altro è sostenerla a tutti i costi fino alla morte.