Il “presidenzialismo”, di cui ha parlato ripetutamente il primo ministro Meloni, è stato sin qui presentato in modo vago (forse necessariamente, in attesa di un serio dibattito tra i partiti) e comunque impreciso. Ma anche se si cerca di definirlo meglio, rassomiglia spesso alla quadratura del cerchio. Sulla base di quanto è stato annunciato sino ad oggi, pare che si voglia soprattutto in qualche modo ridimensionare il ruolo del Parlamento – che nei sistemi parlamentari dà vita e esistenza al governo – creando un legame diretto del “capo dell’esecutivo” con il popolo (meglio dire: il corpo elettorale). Di qui scaturiscono due opzioni. 

A) Fare del Presidente della Repubblica il capo dell’esecutivo grazie all’elezione diretta – eleggerlo direttamente come in Austria senza dargli le competenze di primo ministro sarebbe solo much ado about nothing, molto rumore per nulla. Oppure B) Introdurre l’elezione diretta del primo ministro. La terza ipotesi, quella pare più gettonata nella vaghezza delle proposte, il cd. semipresidenzialismo francese della riforma costituzionale del 1962, non è né l’una né l’altra cosa, ma su questo torniamo tra breve. L’opzione A), come è stato sottolineato da quasi tutti i commentatori, ha il grave svantaggio di privare il nostro sistema politico costituzionale di un arbitro super partes (eletto dal Parlamento) come il Presidente della Repubblica, la cui importanza e necessità è stata apprezzata dall’insieme dei partiti politici negli ultimi anni.

Infatti, un presidente e capo dell’esecutivo eletto, come mostrano con chiarezza i casi di presidenti degli Stati Uniti, della Repubblica di Weimar e di quella francese dal 1962 in poi, viene scelto inevitabilmente dopo una campagna elettorale in cui si oppongono visioni e politiche di parte, come è necessario che sia per un soggetto politico che dovrà essere a capo del governo del paese e non arbitro. Sicché le inevitabili dichiarazioni in base alle quali l’eletto si proclamerà rappresentante di tutto il popolo sono poco più che retorica. La conseguenza di una tale opzione è che il sistema costituzionale si priverà di una figura che, come i nostri Presidenti di elezione parlamentare, può svolgere un ruolo di arbitro super partes e di difensore dell’ordinamento costituzionale, che non può essere quello del leader di una parte politica che peraltro legittimamente governa il paese in ogni sistema rappresentativo.

L’opzione B) va incontro ad un altro ostacolo. Se si immagina l’elezione diretta del primo ministro (come si dice con una superficiale approssimazione: il sindaco d’Italia – la quale però ha caratteristiche molto diverse da un comune) si crea una condizione di difficile coabitazione ed equilibrio fra il ruolo del primo ministro e quello del Presidente della Repubblica, che manterrebbe comunque il suo posto, poiché il primo può sempre far valere la sua legittimità popolare (detta democratica) che scaturisce dall’elezione diretta, di cui sarebbe invece privo il Capo dello Stato.
Il sistema della V Repubblica francese è in realtà un misto inedito (con l’eccezione, non fortunatissima, della Repubblica di Weimar) e realizzatosi in due tempi, fra la costituzione parlamentare francese del 1958 e l’emendamento voluto da De Gaulle nel 1962, che introduceva l’elezione diretta del capo dello stato.

In teoria, o meglio in base al dettato costituzionale, in Francia il primo ministro è il titolare dell’indirizzo politico (art. 21) ed è in ogni caso responsabile dinanzi all’Assemblée Nationale, che può sempre votargli la sfiducia. Il presidente eletto è, a sua volta, nei fatti, il capo dell’esecutivo e il titolare dell’indirizzo politico, ma solo se controlla una maggioranza nella camera dei rappresentanti, designata con una elezione separata e con una diversa legge elettorale. Egli può perdere questa prerogativa in caso di coabitazione (quando cioè, come è accaduto varie volte, la maggioranza dell’Assemblée non è dello stesso colore di quella che ha eletto il presidente). Ma anche nel caso, come quello presente, in cui le forze politiche che si riconoscono nel presidente, non hanno che una maggioranza relativa e devono provare a governare con la formula di un governo di minoranza e difficili compromessi con l’opposizione. Sicché tutto quello che il modello francese del 1962 garantisce è semplicemente la durata del mandato presidenziale, non quella del governo e del primo ministro e la capacità di quest’ultimo di governare il paese.

I riformatori dovrebbero dunque esplicitare con maggiore chiarezza qual è il problema che la riforma costituzionale sarebbe in realtà chiamata a risolvere. A chi scrive, in linea con il famoso e sempre citato ordine del giorno Perassi, sembra che il problema sia soprattutto quello della fragilità dei governi, che deriva innanzitutto dalla frammentazione del sistema dei partiti e dalla debolezza delle competenze del primo ministro. Al secondo problema si può porre rimedio, senza eliminare la funzione arbitrale del Presidente della Repubblica e senza inventarsi la via israeliana del primo ministro eletto direttamente, attraverso il rafforzamento delle competenze del primo ministro – come ha chiaramente indicato Andrea Manzella (sul Corriere della Sera del 21 ottobre). Per quanto riguarda la frammentazione del sistema dei partiti (un problema che esiste ormai in quasi tutti i regimi politici dell’Europa occidentale – compresa la Germania) conta – ma solo fino ad un certo punto – la legge elettorale. I tentativi di modificarla, fatti nel nostro paese dal 1994 in poi, non sono durati e non hanno dato risultati granché positivi quanto alla riduzione dl numero dei partiti. Ma è comunque una questione non solo necessariamente connessa a quella della revisione della forma di governo, ma anche particolarmente complessa, sulla quale bisognerà ritornare.