La possibilità che alcune regioni, a certe condizioni, richiedano ulteriori competenze legislative rispetto a quelle che hanno attualmente in forza dell’art. 117 Cost. è prevista dalla Costituzione. Certo, nell’ambito di una revisione, quella del 2001, molto imperfetta e che concedeva sicuramente troppo alle regioni. Ora si tratterebbe di competenze tendenzialmente esclusive ma comunque soggiacenti a limiti di ordine sistemico, come ad esempio le norme generali poste dalla Repubblica nel campo dell’istruzione (art. 33 Cost.) o i livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali da assicurarsi sull’intero territorio nazionale (art. 117 cost. lett. co. 2, lett.m). E’ una sfida che si può accettare ma che richiede una doverosa premessa.

La prima è che le regioni, come si diceva, dovrebbero intanto restituire alcune doverose competenze allo Stato (si pensi al campo dell’energia o delle grandi reti), ciò che richiede una revisione costituzionale. La seconda è che così come il regionalismo differenziato reca come potenzialità inespressa una facoltà delle regioni di chiedere (anche se non necessariamente ottenere) di più, allo stesso modo esistono parti significative della Costituzione relative ai rapporti tra lo Stato e le regioni che non sono state ancora attuate nonostante contenessero precisi doveri in capo alla Repubblica. Mi riferisco a tre campi: la perequazione prevista dall’art. 119 Cost. destinata ai “territori con minore capacità fiscale per abitante”; la predisposizione di “risorse aggiuntive” e l’effettuazione di “interventi speciali” in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni (art. 119 Cost.) per promuovere sviluppo economico, coesione, solidarietà sociale, rimuovere squilibri economici e sociali al fine di favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per altri scopi; e la citata la determinazione dei l.e.p. (livelli essenziali delle prestazioni), ai sensi art. 117, co. 2 lett. m).

Come possa venire in mente al legislatore, ed in particolare al governo attuale, di consentire un regionalismo asimmetrico in assenza di queste condizioni, di cui l’ultima è assolutamente preliminare e imprescindibile, è ciò che viene definito da alcuni studiosi, non impropriamente, la “secessione dei ricchi”. Che poi in realtà, nel declino del paese è l’arraffare il possibile in una guerra tra (sempre più) poveri. Le regioni del Nord sono convinte di dover ricevere. E invece debbono dare. Inoltre vogliono che si premi una eccellenza, ma la competizione è truccata, perchè senza il “federalismo fiscale” non è possibile valutare realmente l’operato delle classi dirigenti regionali. Le regioni con una spesa storica inferiore hanno funzioni che non sono integralmente finanziate, come invece vuole la Costituzione.

Ciò richiede un percorso lontano da blitz, fughe in avanti e anche richieste generalizzate investenti tutte le materie concorrenti. Occorre prima quantomeno completare la definizione dei l.e.p. prestazione per prestazione, per rendere eque le risorse attribuite alle singole materie. Quando saranno colmati gli “zero al sud” e i divari frutto dell’assenza di valutazioni standardizzate, calcolate con criteri razionali ed equi, allora le regioni valuteranno se resteranno le eccellenze di oggi (con risorse tolte ad altri) e se vorranno ulteriori competenze. Ciò dovrà avvenire, nel caso, con una normativa “quadro” di rango costituzionale, il cui cantiere dovrebbe partire subito, che metta in piedi un sistema razionale e trasparente sul “come” delle devoluzioni: puntuali, reversibili, periodicamente valutabili negli effetti, e nel quale il Parlamento conservi un ruolo sostanziale di decisione. Il regionalismo differenziato può essere emancipativo se rafforza l’unità della Repubblica e non la mina. Il disegno istituzionale di Calderoli è, per quel che si capisce, da cestinare, in quanto eversivo.