Sicuri che un Fontana e un De Luca valgano meno di un Salvini e un Di Maio? Fino a ieri, passata la generazione dei Bassolino e dei Bersani, si dava per scontato che non ci fosse più un solo politico di livello nazionale proveniente da un consiglio regionale; che si fosse, cioè, fatto le ossa con delibere, intese di programma e fondi europei. E tutto questo per ribadire il fallimento delle Regioni, oggi messe definitivamente in croce per come hanno gestito la Sanità. Fallite – si dice – non solo per questo, perché schiantate dal coronavirus, ma perché individuate come la grande falla che ha prosciugato i conti pubblici nazionali e perché rivelatesi pessime scuole di formazione della nuova classe dirigente. Ma davvero è così che stanno le cose?

L’ultimo a sparare contro è stato Marco Travaglio, per il quale “quando usciremo da questa crisi una delle primissime cose da fare sarà prendere la Sanità, toglierla alle Regioni, e ridarla allo Stato centrale”. Con la pistola ancora fumante, ha poi aggiunto: “Sarei per radere al suolo le autonomie regionali e per fare un federalismo su base comunale”. Amen. Ma è l’aria che tira: trovare prima il colpevole e poi il reato. Vogliamo chiamarlo giustizialismo istituzionale? Del resto, è già un bel po’ che non ci accapiglia più a causa del regionalismo differenziato, tema che fino a l’altro giorno appassionava invece gli addetti ai lavori.

Il clima è cambiato proprio da quando si è cominciato a parlare di “secessione dei ricchi” per colpevolizzare le regioni riformatrici del Nord, e di conservatorismo sudista per provocare il fronte resistente. Ma ora è precipitato. E le Regioni – tutte: soprattutto quelle che hanno funzionato – rischiano davvero di fare la fine di Malaussène nei romanzi di Pennac. Nel loro caso, come per il capotribù di Belleville, il ruolo di capro espiatorio sembra quasi l’inverarsi di una vocazione. Non c’è crimine di Palazzo che non venga loro attribuito: l’eccessiva burocratizzazione dell’apparato pubblico, la deriva clientelare, il dualismo economico, lo sprechismo, lo scandalismo.

Oggi tutto sembra essere nato con le Regioni. Le quali, però, sono diventate operative solo negli anni Settanta, quando tutto l’Occidente già assisteva al tramonto del trentennio glorioso e faceva i conti con la crisi petrolifera; quando in Italia già si parlava di “banchieri di Dio” e si titolava sugli scandali dell’aeroporto di Fiumicino, delle banane, e dell’Inps, definito da Lino Jannuzzi “il sanatorio elettorale”; quando non un assessore regionale ma un ministro (Tanassi) finiva in carcere per lo scandalo Lockheed e un capo dello Stato (Leone) veniva indotto alle dimissioni pur essendo innocente, come appurato dieci anni dopo; quando Elio Petri riduceva a film “Todo modo” il raffinatissimo “vaffa” di Sciascia al potere Dc; quando Pasolini chiedeva di processare i “gerarchi democristiani” ( Andreotti, Gava, Fanfani e Restivo); e quando Cesare Zappulli, sul Corriere della Sera, scriveva che “il denaro pubblico è un pascolo libero”. Ma pazienza. Resta l’ultimo libro di Simona Colarizzi (“Un paese in movimento”, Laterza) a tenere viva la memoria.

Viste come si sono messe le cose, difendere le Regioni può dunque rivelarsi una battaglia persa in partenza. Converrà però contare almeno fino a tre prima di condannarle in via definitiva e di chiuderle nel penitenziario della Storia. Proviamo a mettere in fila un po’ di cose. Ai Cinquestelle non piacciono i commissari straordinari, sebbene abbiano un debole per Arcuri di Invitalia, scelto ora in alternativa a Bertolaso per dare una mano a Conte. A Travaglio, come si è detto, non stanno simpatici gli Zaia e i Musumeci. Ed entrambi – i Cinque stelle e Travaglio – non gradiscono i parlamentari, perché ce ne sono troppi in giro, e infatti una parte è già stata rasa al suolo con una legge in attesa di referendum confermativo. Per non parlare dei prefetti, che ormai contano sempre meno, e dei presidenti delle Province, già asfaltati da Delrio.

Allora, come vogliamo governarlo questo Paese? Ma è chiaro. Con un premier che chiamiamo tale ma tale non è. Con un capo del governo che va avanti a forza di dpcm, di decreti (del presidente del Consiglio dei ministri) che non sono né decreti legge né decreti delegati, e perciò non controllati da nessuno, né prima dal Quirinale né dopo dal Parlamento. Con un capo che da Palazzo Chigi dialoga direttamente con i sindaci di Sillano Giuncugnano e di Celenza sul Trigno, vale a dire con 8 mila colleghi disseminati dalle Alpi Carniche alle isole Egadi. E con Casalino a fare da ufficiale di collegamento. Il modello Travaglio, diciamo. Potrebbe funzionare?

Prendiamo proprio l’emergenza virus. I governatori ne hanno fatte di tutti i colori: gaffe, esagerazioni, discese ardite e lente risalite. Ma è difficile immaginare, nella convulsa gestione delle zone rosse e delle sale di terapia intensiva, un ricompattamento in extremis, una linea del Piave, senza la discesa in campo dei governatori. Alle prese con il coronavirus e travolti dalle cifre crescenti del contagio, questi hanno goffamente indossato al contrario le mascherine protettive; hanno dato di matto sproloquiando contro la dieta cinese a base di pipistrelli essiccati e topi vivi; e hanno agitato compiaciuti le manette contro gli untori come i pizzardoni della commedia all’italiana contro i violatori del codice della strada. Ma nessuno può negare che abbiano portato lo Stato ovunque.

E che lo abbiano fatto con fisica partecipazione. Molti sindaci, invece, sono letteralmente spariti dalla scena, compresi quelli solitamente pronti a tutto, anche a mobilitare, come de Magistris a Napoli, flotte e monete “ribelli” per fronteggiare altre emergenze. Rottamiamole pure, allora, queste Regioni. Ma sarebbe il colmo farlo proprio mentre, nel vivo della lotta al nemico più pericoloso, potrebbe affermarsi come vincente, paradossalmente, un modello Italia da contrapporre a quello cinese.

Un sistema di autonomie, cioè, che è a metà strada tra quello a doppia mandata come il tedesco e quello incendiario come lo spagnolo. Ma che sta dentro i confini della democrazia liberale e quando serve non si tira indietro. Un modello che a sorpresa riesce a dimostrarsi anche più solidale di quanto solitamente si creda.